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A Lorena.

 

Uno.

Esistono cose che tutti “sappiamo” ma che non vediamo. Il processo di invisibilizzazione si compie in modo subdolo attraverso i nostri corpi e i nostri pensieri quasi fossimo scorporate da quello che viviamo e sentiamo, la retina non riconosce il dato, ne trasmette una lettura falsata, ambigua, non riconoscibile. Ho compreso di aver bisogno di lenti speciali per capire e poter finalmente vedere, in un giorno qualsiasi, lontano da ogni minaccia di pandemia. Avevo cambiato appartamento ed avevo fatto richiesta per il cambio di residenza, dopo l’infinita trafila burocratica, l’iter sembrava quasi essersi compiuto. Avrei dovuto aspettare il controllo della polizia municipale che avrebbe testimoniato la veridicità della mia nuova residenza. Il vigile entrò trafelato nel mio appartamento e iniziò a compilare il modulo:

-è una casa studenti questa?

-no. Non sono una studentessa.

-c’è un’altra persona alla quale è intestato il contratto.

– si, il mio compagno

– va bene, quindi barro la casella casalinga?

– disoccupata

– devo barrare la casella disoccupato?

– si disoccupatA

Silenzio

-Abbiamo finito, arrivederci.

Avevo compilato svariati moduli per quell’operazione, senza mai essermi resa conto che tra le varie opzioni comparissero i termini casalinga e disoccupato rispettivamente declinati al femminile e al maschile. Così, io stessa avevo passato in rassegna la casella da barrare senza vedere quel piccolo particolare. Quel giorno, invece, ho messo a fuoco per la prima volta il concetto di visibile e invisibile. In qualche modo lo stato mi stava mandando un messaggio preciso: come disoccupata io non esisto. Una presenza/assenza, in fin dei conti, ma anche la rappresentazione di una realtà che tutti “sappiamo”: una donna che non svolge un lavoro subordinato, ne svolge un altro non riconosciuto all’interno delle mura domestiche. L’affermazione del vigile, inoltre, era stata consequenziale alla constatazione del mio vivere in casa con un’altra persona di sesso maschile con la quale avevo una relazione. Quindi, era la presenza di un uomo a determinare la mia assenza? O bastava il mio genere a caratterizzare la mia funzione sociale: di cura e riproduzione?
Così ho acceso il pc e ho iniziato a cercare documenti, articoli e dati che potessero chiarirmi la visione delle cose. Volevo capire come il mondo al di fuori di me si rapportasse alla questione e una sfilza lunghissima di dati mi si è profila davanti. Istat, Ue, Confindustria e Confartigianato, una cascata di numeri mi si sono rovesciati addosso.

“Nel 2016 nell’Ue, il 79 % delle donne cucina e/o svolge attività domestiche quotidianamente, rispetto al 34 % degli uomini.
Nell’Ue nel 2018, il tasso di disoccupazione è il 7,1 % per le donne e il 6,6 % per gli uomini.
Nel 2017, le donne hanno guadagnato il 16,0 % in meno degli uomini nell’Unione europea, se si confronta la retribuzione lorda oraria media.
A livello d’indicatore non corretto, il divario retributivo fra donne e uomini fornisce un quadro generale delle diseguaglianze di genere in termini di paga oraria. Parte delle differenze di retribuzione si possono spiegare con le caratteristiche individuali delle donne e degli uomini occupati (per es. esperienza e istruzione) e con la segregazione di genere a livello occupazionale (per es. ci sono più uomini che donne in alcuni settori/occupazioni con retribuzioni mediamente più alte rispetto ad altri settori/occupazioni). Di conseguenza il divario retributivo è legato a svariati fattori culturali, legali, sociali ed economici che vanno molto oltre la mera questione di un’uguale retribuzione per un uguale lavoro”. Istat
Insomma, un segreto di pulcinella quello del lavoro riproduttivo svolto dalle donne, che tutti sappiamo ma che non vediamo, perché se riuscissimo a vederlo ne coglieremmo altri aspetti e cioè che ci viene sottratta con l’inganno una quantità di tempo, di forza lavoro fisica e mentale, centrale per la riproduzione del sistema economico nel quale viviamo.
Hanno coniato un termine: casalinga, per inculcarci che il lavoro di cura si svolge per “vocazione”. Per assenza, o per presenza di altri.

Mentre mi interrogavo su tutte queste questioni è scoppiata la pandemia e Irina è morta ammazzata di botte dal compagno, in un reparto dell’Ospedale Pellegrini di Napoli dopo giorni e giorni di agonia, con gli organi spappolati dalle continue botte ricevute, ma i giornali questo non ce lo hanno detto. Hanno preferito somministrarci una narrazione colpevolmente ambigua finalizzata ad attribuire la responsabilità della morte alla “devastazione” del pronto soccorso dell’Ospedale. Irina ha avuto un nome per qualche istante, solo perché le condizioni nelle quali è stata assassinata ben si prestavano al racconto romanzato e melodrammatico più consono alla situazione politica attuale. Irina è esistita per qualche ora, poi è stata sepolta in solitudine, all’ombra della pandemia.

Nel 2019 l’Istat ci ha fornito dei dati per indagare il numero di violenze e femminicidi perpetrati nel nostro paese: 95 donne ammazzate nel 2019 in Italia, in media una ogni 3 giorni.

Un genocidio direbbe qualcuna. Un genocidio che si compie al riparo delle mura domestiche, perché stupratori e assassini vivono nelle nostre case. Così il governo ci ha detto di restare a casa, perché c’è la pandemia e la gente muore. Irina è morta in ospedale ma è stata ammazzata proprio in quella casa dove sarebbe dovuta restare. Tra gli innumerevoli decreti emanati, nessuna parola si è spesa per chi a casa non è al sicuro, per chi rischia di morire non di covid ma di botte. Ho letto da qualche parte che le donne saranno tutelate durante la pandemia. Da chi, mi chiedo? Da quel che resta dei centri antiviolenza ai quali sono state tolte risorse e fondi, da quei centri che su molti territori sono scomparsi per volontà di politiche governative, regionali e comunali? Da quelle stesse giunte che hanno messo in vendita Lucha y Siesta?
Sì, questo passa lo stato.

Il volto rassicurante del presidente del consiglio ha accompagnato le sere di molte di noi.
Con voce pacata i ministri ci hanno chiesto di essere pazienti, di tollerare e arginare la violenza. Restate a casa in nome di una ragion di stato più importante. Ancora una volta mi sono sentita invisibile, la mia vita e quella di migliaia di donne sono invisibili. Tutte lo sanno, ma nessuno le vede o vuole vederle.
Ho avuto la sensazione di soffocare, mi sono affacciata al balcone, avevo bisogno d’aria.
Le voci delle donne del vicolo ossigenavano i miei polmoni. Convenivano che restare a casa e uscire solo per far la spesa non era poi così insolito. La cosa insolita era starci con gli uomini.

 

Due.

Il 17 marzo il Governo ha emanato un nuovo decreto, lo ha chiamato “Cura Italia”. Il decreto dovrebbe tutelare aziende e lavoratori, garantire il sostentamento degli italiani e delle loro famiglie.
Nonostante il presidente del consiglio abbia tentato di mantenere un tono rassicurante durante le sue dirette social, è risultato fin da subito evidente quanto nel suo discorso, come d’altronde nel decreto, vi fossero crepe enormi che lasciavano sguarnite d’ogni tutela milioni di donne.
Emerge in maniera chiara che il suo concetto di tutela passi per una contrattualizzazione che non tiene conto della situazione reale nella quale versano proprio quei milioni di lavoratrici in nero, precarie, non garantite, di molteplici settori.
Ancora una volta il concetto ruota intorno al binomio presenza/assenza, visibile/invisibile.
Proprio l’Unione Europea durante la conferenza dell’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di genere ha illustrato quanto il lavoro precario sia una prerogativa quasi esclusivamente femminile. Vengono elencati anche i parametri utilizzati per definire le disparità di trattamento tra uomini e donne.
Il primo parametro è il salario basso; il secondo sono le ore di lavoro (se si lavora meno di dieci ore la settimana allora si è precari); terzo, la tutela o la sicurezza del lavoro: se si ha un contratto a tempo determinato per dodici mesi lavorativi o se il contratto può essere sciolto senza preavviso, allora si è precari. Una donna su due ha un lavoro precario. Ancora una volta è l’Ue a suggerirci quanto il precariato rappresenti un aspetto centrale nella disuguaglianza di genere, perché “provoca automaticamente una dipendenza economica dal coniuge o dalla famiglia, aumenta la povertà e incide sulla violenza”.

Come sottolineava Bourdieu «Iniziamo a sospettare che la precarietà sia il prodotto non di una fatalità economica, identificata con la famosa mondializzazione, bensì una volontà politica. La precarietà si inserisce in una modalità di dominio di nuovo genere, fondata sull’istituzione di uno stato generalizzato e permanente di insicurezza che tende a costringere i lavoratori (e ancor di più le lavoratrici, Ndr) alla sottomissione, all’accettazione dello sfruttamento.»
Nell’ultimo trentennio hanno provato a inculcarci la convenienza del lavoro part-time come strumento in grado di inserirci nel mondo del lavoro, lasciandoci una fetta di tempo per noi o per le nostre famiglie. Potremmo dire, invece, in modo più appropriato, quanto quel tempo al di fuori del lavoro subordinato corrisponda ad un ulteriore tempo di lavoro non retribuito che, come tutti i tempi di lavoro non retribuiti, ha un preciso valore, sociale ed economico (Istat).

Se attualmente la precarizzazione risulta ben diffusa all’interno di tutta la classe lavoratrice è altrettanto vero che le donne ne siano state le cavie.

Se guardiamo alle prime forme di sperimentazione di lavoro part-time appare chiaro che queste siano state agite sui corpi delle donne. La retorica della flessibilizzazione del lavoro, articolata sulla necessità di conciliare la vita familiare con quella professionale, si traduce in lavoro di cura e di
riproduzione, finendo per forgiare un tipo di contrattualizzazione che non fa altro che precarizzare e smantellare i già erosi diritti di base. E tutto ciò non sarebbe stato possibile se non fosse diffusa la convinzione che il lavoro riproduttivo sia una prerogativa femminile. Attraverso le forme di teleselling, di smartworking non si è fatto altro che sperimentare fin dove la precarietà si potesse spingere. Paghe più basse, scarico dei costi fissi ai danni delle lavoratrici stesse, orari sempre più flessibili.
Stando ai dati anche la precarizzazione del lavoro ha un sesso. In Italia il 33% delle donne lavoratrici svolge un lavoro part-time, di queste il 60% è stata costretta nonostante avrebbe preferito un lavoro a tempo pieno, a fronte dell’8% dei lavoratori part-time uomini.
Recentemente numerose riviste e quotidiani hanno posto l’accento sul ricatto del part-time forzato. Non si contano le storie di donne costrette ad accettare la riduzione di orario e salario per evitare il licenziamento. Pertanto, se l’utilizzo del part-time è cresciuto negli ultimi anni in maniera considerevole e con esso l’occupazione femminile, ciò è avvenuto sulla base di un ricatto esplicito. Inoltre, in molti casi, le donne obbligate ad accettare un evidente peggioramento delle condizioni di lavoro e di retribuzione hanno comunque dovuto affrontare una mole di lavoro inalterata che ha di fatto raddoppiato lo sfruttamento ai loro danni.

Si dice part-time, si legge full time.

In questi giorni di pandemia, il governo ci ha invitate a lavorare da casa, omettendo però che i costi di elettricità, internet e gas non sarebbero più stati a carico delle aziende, ma delle lavoratrici stesse. Inoltre, assistiamo al diffondersi della pratica attraverso la quale le lavoratrici vengono messe in cassa integrazione, vedendosi dunque decurtare lo stipendio, salvo poi essere costrette comunque a lavorare. Si aggiunge, inoltre, per le donne genitrici, l’upgrade del continuare a lavorare all’interno delle mura domestiche dovendo, stavolta sì, conciliare il tempo di lavoro con quello di cura di figli e famiglia.
Sempre stando al rapporto Istat 2017/ 2019 il lavoro atipico risulta fortemente “femminilizzato”. Tra i mille alveoli all’interno dei quali precarietà, paghe da fame e incertezza lavorativa si codificano, possono essere infatti annoverate la miriade di forme contrattuali affinate nelle ultime normative sul lavoro. Non solo part time e tempo determinato, ma Co.Co.Co., chiamata e anche partite iva: è tendenza diffusa, riscontrata in numerose aziende, assumere dipendenti a tutti gli effetti inquadrandole però come collaboratrici esterne dotate di partita iva; ancora un altro modo per scaricare costi e bypassare tutele (no ferie, no malattie, etc).
Ad oggi, anche parlare di categorie contrattuali risulta estremamente fuorviante: piuttosto dovremmo parlare di una questione di genere.
Un recente articolo del sole 24 ore titola “Donne, sud, giovani: le tre fragilità del mercato del lavoro”. Non fa riferimento alla combo che si potrebbe innescare considerando la compresenza di queste tre categorie, e più che di fragilità forse dovremmo parlare di precise volontà politiche ed economiche, diremmo noi. Le stesse volontà che fanno sì che nel decreto Cura Italia non ci si prenda “cura” della situazione di tutte le precarie.

 

Tre.

“La pubblicità è ferma, non ci sono risorse per pagare i collaboratori esterni che dobbiamo mettere in pausa. Tra questi ci sei tu.”
Così sono stata licenziata per il covid19, una mail frettolosa senza possibilità di replica. La promessa del presidente in diretta nazionale: “non ci saranno licenziamenti per i prossimi due mesi”, smentita in un batter di ciglia. La questione è che le lavoratrici in nero non sono proprio classificate, poco conta sapere che lavoravo per uno di quelle testate sempre in prima fila nella denuncia delle ingiustizie altrui, poco conta sapere che una percentuale altissima di donne impiegate nei settori del turismo, della ristorazione, della movida, della cura e della formazione un contratto non lo ha mai avuto.
Eppure il governo non è affatto all’oscuro della situazione nella quale versa il paese. Sono inciampata in un documento ISFOL: “Il 47, 4 per cento dell’occupazione irregolare è donna” dice la presidente nazionale donna-impresa. Ne sono seguiti molti altri, discussi in senato e un lungo dibattito tra confindustria e il governo ha animato gli ultimi anni. Ho spulciato il decreto appena emanato per capire se avessi avuto diritto a qualche forma di tutela per questo licenziamento, ho controllato tra postille inesistenti per capire se avessi avuto la possibilità di sostentarmi in qualche modo, di pagare affitto e bollette. Nulla. Per le lavoratrici in nero, non c’è nulla.
Negli ultimi giorni pare che il governo sia corso ai ripari, dichiarando che ci saranno tutele anche per chi non era mai stata nominata nei precedenti decreti. Sarà che la gente ha iniziato ad essere esasperata e ha cominciato a prendere con la forza ciò di cui aveva bisogno, sarà che ci hanno insegnato la meraviglia verso la gente che ruba il pane, il presidente si è sentito in dovere di sussurrare qualche parola anche per noi fantasmi della società. Se un timido balbettio è stato pronunciato, resta ancora una profonda assenza nei proclami pubblici: quella inerente al lavoro migrante, regolare e irregolare, che per il settore di cura coincide al 90% con lavoro femminile (Istat).

Tutte le badanti, anche quelle regolarizzate, allo stato attuale non hanno ancora diritto ad alcun tipo di sovvenzione. Per loro non è prevista nessuna sospensione dal lavoro, anzi un aumento notevole della sua mole e anche una sospensione totale di diritti: le badanti domiciliate nel luogo di lavoro, in nome della sicurezza nazionale e del #restateacasa, hanno dovuto rinunciare ai loro giorni festivi, alle loro pause e si sono dovute piegare allo sfruttamento h24. Anche in questo caso i rapporti governativi ci obbligano a constatare un’amara verità: il lavoro migrante è in buona parte non regolarizzato e investe numerosi settori, in primis quello agricolo e di cura, ma proprio quest’ultimo esprimerebbe un’esigenza delle famiglie italiane, incapaci di sostenere i costi contrattuali delle loro dipendenti. Tra le righe si afferma, quindi, che tutto sommato i diritti e la vita delle donne migranti possono essere accantonate. A tal proposito la pandemia ha mandato al macello tutte le persone non regolarizzate e senza permesso di soggiorno. Le autocertificazioni per le “irregolari” non sono contemplate. Dunque chi non è in grado di motivare i propri spostamenti per motivi di lavoro (che ufficialmente non risulta), deve aggiungere alla paura della sanzione, il terrore del controllo della verifica del titolo di soggiorno, con un conseguente pericolo di espulsione che costringerebbe a lasciare affetti e lavoro.
Così da parte delle “famiglie bisognose”, si esercita un ulteriore ricatto volto a costringere le badanti a sottostare ad orari massacranti o al contagio. In sintesi, ad un ricatto costante. Una regolarizzazione del lavoro sommerso, stando al nostro ordinamento, non esiste per chi è in nero e non ha permesso di soggiorno. Per le leggi in vigore, infatti, non è bastevole un’offerta di lavoro per ottenere un regolare permesso di soggiorno. That’s it.

Nel magma del lavoro nero o della disoccupazione ci sono situazioni completamente differenti: quelle ai limiti della schiavitù del settore migrante, quello delle operaie a nero, delle babysitter lasciate a casa con o senza voucher, delle artigiane, impiegate, lavoratrici dello spettacolo, operatrici di call center, commesse, bariste, cameriere, insegnanti private e a chiamata, precarie del turismo e di tutti i servizi annessi. Insomma per ogni categoria “protetta” ce ne sono decine e decine scoperte. Il presidente, per essere onesto, avrebbe dovuto dire che chi ha un contratto che lo tutela, sarebbe sopravvissuto alla pandemia, chi non ha questa “fortuna” o diritto, avrebbe dovuto iniziare a capire in che modo sopravvivere. E capire in che modo esistere nella nebulosa dei decreti è operazione tutt’altro che semplice.

I dati Istat, i rapporti Isfol, di confindustria e confartigianato li leggo ogni sera, non perché io abbia bisogno di qualcun altro che mi dica quale sia la situazione delle donne nel paese, a me basta ascoltare, leggere e sentire quello che le sorelle in Italia e nel resto del mondo raccontano. Io li leggo per avere la certezza che della miseria della quale parliamo, ne sono a conoscenza anche politici, industriali, padroni e istituzioni, che ancora una volta fingono di non vedere e ci confinano in quella parte invisibile del mondo. Quella parte nella quale il nostro corpo, a prescindere da quello che si ha in mezzo alle gambe, è costantemente abusato e invisibilizzato. Ho bisogno di leggerli per ricordarmi che per loro curare ha un solo significato.

CURARE è PUNIRE.

Dopo la pandemia non torneremo alla normalità, perché la normalità fa schifo. Dopo la pandemia ci prenderemo il pane e faremo fiorire le nostre rose nella rabbia e nell’amore.