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Perdemmo Evelyn in un pomeriggio di giugno uguale agli altri. Non era facile ricordare con precisione che giorno fosse. Di tutta la storia sono certe solo tre cose. La prima è che faceva caldo e noi non avevamo l’aria condizionata. La seconda è che avvisarono telefonicamente Daria della sua scomparsa con una telefonata anonima. La terza è che era giugno ed era il primo anno di quarantena.

L’Impero era da poco passato alla seconda fase dell’Ordine diffondendo il Nuovo Decreto, acclamato come uno straordinario successo dal popolo dei social. Le televisioni avevano mandato per due giorni ininterrottamente, a reti unificate, il discorso che introduceva le disposizioni del Decreto, il numero XVI. Era un lungo elenco di divieti e di rassicurazioni paternalistiche. Non c’era alcun pericolo per la popolazione, la sola condizione a cui conformarsi era restare in casa, non uscire, non aprire a nessuno che non avesse il permesso dell’Impero.

Le disposizioni si erano rese necessarie dall’aumento vertiginoso del numero dei furti. Poche sere prima, nel corso di una rapina a un tabaccaio erano morti in tre. Chiusi in casa, senza reddito, i non garantiti dalle norme del Decreto avevano a poco a poco varcato la linea che separa la legalità dal crimine su cui fino a quel momento erano stati in equilibrio. Sotto quella linea non c’era alcuna rete. C’era in ballo la vita, la propria e quella degli altri. L’Impero lo comprese in fretta e si affrettò a rendere pubbliche le nuove statistiche del contagio, sottolineando l’impennata di decessi e infettati registrata nelle ultime settimane. Le persone uscivano troppo, parlavano troppo, violavano deliberatamente i Decreti. E tutto questo accadeva nonostante i droni sorvolassero notte e giorno le città, nonostante l’esercito pattugliasse meticolosamente i quartieri e i rotori degli elicotteri smuovessero l’aria estiva. Migliaia di uomini in mimetica e maschere antigas si aggiravano per le strade già da quasi un anno; doveva essere una disposizione transitoria, resa necessaria dalla prevenzione della Pandemia. Ma la Pandemia non era mai passata e le misure straordinarie erano state rinnovate di settimana in settimana, poi di mese in mese; alla fine non vi fu bisogno di alcun rinnovo. I partiti che non erano entrati a far parte dell’Impero inizialmente avevano rivolto inviti ai cittadini a ricordarsi di non votare più per chi aveva gestito con inefficienza la crisi; così tanto confinati nei vicoli delle cabine elettorali non si erano resi conto che di elezioni non si sarebbe più parlato.

Poi erano cominciate le rapine e gli assalti ai supermercati a cui l’Impero aveva reagito emanando misure più restrittive e pene più severe e promettendo qualche vago aiuto economico alle famiglie in difficoltà. Era il bastone e la carota. Il bastone subito, la carota l’avrebbero vista forse un giorno i più meritevoli. Erano disposizioni assai più utili ed efficaci dei blandi appelli alla responsabilità. Era già accaduto dopo le prime rivolte nelle carceri. L’epidemia si diffondeva rapidamente anche dietro le sbarre e tutti gli istituti di pena furono scossi da sommosse mai viste prima. Morirono a dozzine, o almeno queste furono le informazioni che circolarono perché l’Impero non rese mai noti i nomi e le circostanze dei decessi. I rivoltosi furono colpiti duramente: furono rinchiusi in un carcere speciale, costruito in tempi record; non gli era concesso godere di ora d’aria, nessun colloquio, nessuna lettera, nessun giornale. I loro nomi, sì questi sì, vennero diffusi. Le famiglie furono oggetto di vessazioni e minacce da parte della stampa, dell’Impero e dei Volontari.

Il Decreto XVI, quello estivo, prevedeva l’abolizione delle autocertificazioni. Compilare i moduli aveva dato adito a troppe noie, troppi ricorsi, troppi casi da dirimere e, soprattutto, si trovava sempre un modo per superare il divieto. La nuova procedura snelliva questa burocrazia farraginosa. Da quel momento i permessi venivano elargiti direttamente dagli uffici del MIVRECO, Ministero della Vigilanza e Repressione del Contagio. Era sufficiente iscriversi al portale web inserendo i propri dati anagrafici, il proprio casellario giudiziario e il certificato sanitario rilasciato dal Ministero. A quel punto bastava compilare la domanda per ottenere il permesso, specificando dettagliatamente le ragioni della richiesta, il mezzo di trasporto che si intendeva utilizzare e le strade che si sarebbero dovute percorrere. Nel giro di pochi giorni sarebbe arrivata una mail che garantiva la possibilità di uscire all’esterno. Il foglio era diviso in due, con una linea tratteggiata al centro. Occorreva ritagliare la parte superiore e appuntarla sugli abiti affinché fosse immediatamente visibile ed identificabile sia dall’esercito dell’Impero che dai Volontari. Quest’ultimi avrebbero potuto avviare controlli immediati e salvare chissà quante vite umane semplicemente inquadrando il QR code dal proprio balcone e inviandolo attraverso una specifica App all’impero, sezione MIVRECO, il quale a sua volta avrebbe incrociato i dati assicurandosi che il permesso fosse effettivamente valido e in vigore. Inoltre il Ministero garantiva un tampone ad ampio spettro per monitorare le condizioni di salute a chiunque avesse aiutato a sorprendere in flagrante un criminale uscito senza permesso. L’offerta era valida per sé e per la propria famiglia.

Prima di allora Daria e gli altri erano andati a trovare Evelyn di nascosto o con qualche scusa. Passavano a fare la spesa e con le buste cercavano di eludere la sorveglianza. Si rifugiavano nei portoni e si fingevano condomini.  I volontari dell’Impero, le spie degli smartphone, riprendevano qualunque cosa si muovesse per poi inviare i video tramite l’App del MIVRECO. Per sfuggire ai mille occhi dell’Impero restavano rintanati sotto le scale o nei seminterrati sperando che smettessero di riprenderli e poi tiravano dritti verso casa di Evelyn.

Da quando il Ministero l’aveva categorizzata come afflitta da una malattia mentale da cui era impossibile guarire e ristabilirsi, le aveva categoricamente imposto di non uscire e le avevano stretto il braccialetto elettronico con segnalatore GPS alla caviglia. Gli ospedali erano saturi e non era possibile sprecare del tempo a cercare di curare chi non sarebbe mai potuto guarire, così stabilì il Governo dei Decreti. Migliaia di sofferenze rimasero inascoltate, migliaia di solitudini affogarono nel dolore dei malati e dei loro parenti impotenti. Degli addetti le facevano visita una volta alla settimana somministrando farmaci che il più delle volte la facevano dormire per giorni. Era proprio quello che non voleva. Gli incubi notturni erano ancora più veri e terrificanti di quello che vedeva di giorno. Le somministrarono il litio e i suoi incubi non fecero che aumentare. Daria sapeva di rischiare la libertà e la vita eppure non la abbandonò mai. Sapeva quanta bellezza c’era in solo un gesto di inclusione.

Un pomeriggio Evelyn chiamò a casa dicendo che non poteva più muoversi, che la tenevano prigioniera, che non poteva scendere dal divano senza tagliarsi. Daria indossò in tutta fretta la tuta mimetica, mise una parrucca per coprire i suoi capelli viola, sputò sul vetro della maschera antigas e la mise sul volto. Il caldo sotto tutta quella roba era asfissiante. La parrucca prudeva maledettamente; fu così che una ciocca dei suoi capelli spuntò fuori dal cappuccio e uno smartphone la filmò mentre attraversava di corsa una strada deserta. La sua immagine fece il giro del web. Tutti si chiedevano chi fosse la donna dai capelli viola che correva; era una madre? doveva comprare urgentemente del latte per i propri figli? Era un’agente dell’Impero? Era una puttana che correva da un cliente all’altro? Il popolo si divideva tra indulgenza paternalistica e odio feroce. Il dibattito durò alcuni giorni poi fece notizia qualcos’altro.

Daria aveva le chiavi, ma bussò prima lo stesso. Dall’interno non proveniva alcun rumore. Trovò Evelyn rannicchiata in un angolo del divano. Aveva ferite, graffi e tagli sul viso, sulle gambe, sul petto. Diceva che ad ogni suo pensiero si srotolava un gomitolo di filo spinato da una parte all’altra della casa. Non c’era modo di alzarsi dal divano senza ferirsi. Era il preludio della crisi che ce la fece perdere definitivamente. 

All’epoca Rudy non viveva ancora con noi, glielo raccontammo io e Maz durante uno dei lunghi pomeriggi di silenzio di Daria. Pomeriggi trascorsi a guardare e riguardare il volto di Evelyn affacciarsi alla finestra e guardare sotto. Molti la ripresero mentre si alzava in piedi sul davanzale e faceva dell’asfalto, quattro piani più giù, il suo unico orizzonte. A migliaia non resistettero a mandare in diretta il suo il volo. Saltò, nel vero senso della parola. Spiccò un salto verso l’alto, non verso il basso. La ripresero tutti mentre rantolava per terra, mentre la vita le scivolava via. Ma nessuno se la sentì di uscire di casa per sincerarsi delle condizioni. La paura di contrarre la malattia era più forte di tutto. Solo un ragazzo indossò maschera e guanti e si precipitò per le scale, era Rudy. Una chiazza di sangue nero si allargava attorno al cranio di Evelyn. Nella mano sinistra stringeva fortissimo un bigliettino con una lettera indirizzata a Daria e un numero di telefono. Un drone prese a sorvolare inquadrando la scena, poi arrivarono le pattuglie e le ambulanze. Prelevarono il ragazzo per aver violato l’obbligo di quarantena a cui era sottoposto.

Fu così che conoscemmo Rudy, lo stesso giorno che perdemmo Evelyn.

 

Numerosi studi si sono occupati di mettere in correlazione lo stato di quarantena con la sofferenza mentale. Tra il 2003 e il 2005, in seguito all’emergenza sanitaria della Sars, è emerso che isolamenti anche inferiori ai dieci giorni possono causare effetti psicologici negativi a lungo termine. Ancora dopo tre anni dalla quarantena si registrano sintomi di stress post traumatico e abuso di alcool o altre sostanze.
Stando agli studi, il timore del contatto sociale che stiamo introiettando in questo periodo, rimarrà nel tempo. La logica della paura, del terrore degli untori e delle relazioni sociali daranno vita a comportamenti evitanti di cui sarà difficile liberarsi.
Gli effetti economici della quarantena inoltre, come la perdita del lavoro e/o di reddito, si protraggono nel tempo e rischiano di peggiorare ulteriormente le condizioni psicologiche. Le donne e i giovani tra i 16 e i 24 anni sembrano i soggetti più colpiti dagli effetti psicologici della quarantena.
Oltre a questi soggetti, dentro le mura delle case sono bloccate milioni di persone già fragili che rischiano danni irreparabili alla propria salute mentale, se non letteralmente la vita. Persone soggette a malattie psichiatriche come depressione (secondo l’ISTAT, nel 2015 circa 2 milioni e 800.000 italiani), ma anche schizofrenia (245.000 italiani circa), disturbi bipolari (circa 1 milione di persone), dipendenza da sostanze, demenze.
Persone per cui, un regime di isolamento forzato, con l’obbligo di rinunciare a contatti umani, personali o terapeutici, è un forte danno nonché un importante predittore di sintomi futuri più gravi.
La sofferenza psichica non è una leggerezza e nel 2016 ha causato oltre 21000 morti in Italia. A tal proposito è emblematica durante questa emergenza l’impennata dei casi di trattamento sanitario obbligatorio. A Torino, ad esempio, da una media di un TSO ogni due giorni, con il lockdown si è passati a picchi di nove TSO al giorno.
Ad allarmare comincia ad essere anche il numero di suicidi legati in qualche modo al #Covid19 in Italia.

Il primo ad essere registrato è stato il 13 marzo dove un uomo di Pavia di 65 anni ricoverato per una forma di broncopolmonite in attesa del risultato del tampone si è gettato da una finestra del terzo piano dell’Ospedale Maugeri di Montescano. Fatale per l’uomo sembra essere stata la paura di essere stato contagiato. Un altro atto estremo è stato quello di una donna di 49 anni di Cortellazzo vicino Jesolo, infermiera in terapia intensiva. Dopo giorni intensi di lavoro, l’operatrice sanitaria aveva cominciato ad accusare febbre. Il suo corpo è stato trovato da un pescatore vicino al fiume Piave. La lista si è allungata con il gesto estremo di una donna di 52 anni di Salerno che soffriva di un leggero stato depressivo. Ossessionata dal timore di poter essere contagiata da COVID19  si è lanciata dal balcone della sua abitazione. A Carmagnola (TO), un ragazzo di 29 anni, si è tolto la vita dopo aver saputo della chiusura temporanea dello stabilimento presso cui lavorava, tormentato dalla paura di essere licenziato. Il 31.03.2020 ha scelto di togliersi la vita un uomo, un padre, che qualche giorno fare era uscito in bici con il figlio piccolo per fare un giro attorno casa, da soli. Fermato dalla polizia è stato multato e non sarebbe riuscito a sopportare il peso di una repressione così imponente, o almeno così ha detto Angelo Borrelli, capo dipartimento della protezione civile.
Eppure, nonostante un’emergenza così tangibile, con l’ordinanza n. 16 del 13 marzo della regione Campania si ordina “con decorrenza immediata” la sospensione su tutto il territorio regionale delle “attività sanitarie e assistenziali di tutti i servizi sanitari e socio-sanitari territoriali semi-residenziali pubblici e privati (Riabilitazione estensiva, Centri Diurni per anziani e per disabili non autosufficienti, pazienti psichiatrici minori e adulti) nonché tutti i servizi sociali a regime diurno attivati dagli ambiti sociali.”

Ci sarebbe molto da riflettere su questa decisione dello Sceriffo De Luca; non sarebbe stato meglio mantenere in funzione i servizi, seppur con le dovute cautele, invece di chiuderli del tutto?
Forse questa decisione è stata presa sulla base di una già pregressa assenza di sostegno a tutta la rete della salute mentale?
Invece, il governo, nel decreto legge n. 14 del 9 marzo 2020, ha prescritto la facoltà per le Regioni di “istituire, entro dieci giorni […], unità speciali atte a garantire l’erogazione di prestazioni sanitarie e socio-sanitarie a domicilio in favore di persone con disabilità che presentino condizione di fragilità o di comorbilità tali da renderle soggette a rischio nella frequentazione dei centri diurni”.
La regione Campania però non si è posta questi problemi. Nessuna unità speciale è stata organizzata nè si è pensato ad un modo per sopperire all’interruzione della continuità terapeutica fondamentale nelle cure psicologiche, psichiatriche e riabilitative delle disabilità.
D’altro canto la Regione interviene direttamente sulla salvaguardia dei Livelli essenziali di assistenza (i Lea) che, nella loro definizione generale, sono individuati e definiti dallo Stato.
Sono peraltro del tutto assenti per la salute mentale, come più complessivamente per la disabilità, specifiche e puntali indicazioni su modalità di intervento e azioni per garantire la continuità terapeutica. Le direttive governative e regionali si limitano a restringere l’operatività dei servizi (la chiusura dei centri diurni e semi-residenziali, prima realizzata a macchia di leopardo, è ora estesa dal Cura Italia a tutto il paese). Le indicazioni sull’assistenza domiciliare sono vaghe, spesso inefficaci e prive di logica terapeutica. Le misure di sostegno a distanza sono ancora tutte da mettere in campo, e spesso addirittura contraddittorie: dal dipartimento salute mentale dell’ ASL Napoli 1, per esempio, in una circolare del 19 marzo si afferma che “un intervento a distanza – videochiamata, telefonata, collegamento skype – rappresenta una modalità di prendersi cura ma non può essere considerato una prestazione sanitaria di cura”, escludendo, di fatto, le attività in remoto per trattamenti come logopedia e psicoterapia dai setting assistenziali attivabili dai centri di riabilitazione, innanzitutto quelli per minori.
In diverse realtà territoriali i centri di salute mentale (su disposizione dei direttori sanitari, o dei dipartimenti di salute mentale o delle stesse regioni) restano aperti sospendendo la loro ‘attività ordinaria’. Utilizzando come motivazione la carenza di dispositivi di sicurezza, hanno sospeso tutte le attività riabilitative, assicurando esclusivamente farmaci, interventi d’emergenza, ricoveri e TSO. In altre realtà, gli operatori, adottando tutte le misure di sicurezza, continuano a garantire assistenza e cure sia nei servizi che al domicilio dei pazienti.
Insomma nella situazione attuale, in cui le persone fragili dovrebbero essere semmai maggiormente sostenute, si sta mettendo a forte rischio la salute mentale dei cittadini. Per la tutela della salute pubblica bisognerebbe garantire il funzionamento della rete territoriale della Salute Mentale, a partire dai servizi territoriali rivolti agli anziani, alle persone con disabilità, alle persone con malattie croniche.
Immaginate, perciò, le preoccupazioni che ciascuno sente così pesantemente sul proprio corpo in questo periodo e il dolore di una sofferenza che è già nella mente e adesso resta anche intrappolata tra le mura di casa, non solo quella dei o delle sofferenti psichiche, ma anche quella dei e delle loro cari e care. Questo è quello che scriveva, in un commento sotto un articolo di un giornale online, una donna in questi giorni: “Sto vivendo con mio figlio ed è devastante! Per lui, per me. La casa non è neppure una prigione, ma un campo di battaglia e siamo allo stremo delle forze. Distrutta la quotidianità, ferma la riabilitazione, ferme le terapie, interrotta l’assistenza di base, l’assistenza alla persona e l’assistenza educativa.
Abbandonati a noi stessi. La clausura forzata unita alla mancanza di supporto sfociano in una frustrazione incontenibile che diventa pericolosa per chi non è in grado di gestirla o esprimerla. È devastante”.
A compensare questo aspetto sono state, negli ultimi giorni, numerose associazioni legate a temi psicologici e psichiatrici e liberi professionisti della salute mentale che hanno offerto servizi di consulenza gratuita telefonica o attraverso le chat messe a disposizione dai social network, non riuscendo comunque a rispondere a tutte le esigenze.
Il peso dell’assistenza psichiatrica e psicologica, torna così a cadere quasi interamente sulle spalle delle famiglie. E la situazione non migliora se spostiamo lo sguardo sui servizi residenziali.
Nelle strutture residenziali, sia quelle per anziani che quelle per disabili, dall’inizio di questa crisi sono vietati i periodici ritorni presso il domicilio, ma anche le visite. Eppure sono tanti gli anziani che in tutta Italia si stanno contagiando e stanno morendo nelle Rsa, migliaia in pochi giorni. Così come sono moltissimi gli operatori che continuano il lavoro di assistenza, si contagiano, si ammalano, a volte muoiono, nel silenzio delle istituzioni.
Sarebbe necessario che il Governo, d’intesa con le Regioni, emani disposizioni valide su tutto il territorio nazionale chiarendo che i servizi di prossimità devono garantire ovunque le attività terapeutiche e riabilitative, rispettando le misure di prevenzione e protezione per operatori e utenti, e indicando esplicitamente le tipologie di attività da garantire. Questo orientamento è tanto più necessario di fronte a scelte difformi tra le regioni.
In salute mentale, come in tutti gli altri settori della società, pure il virus non è uguale per tutti.