#èORAdaria_0

Il tempo dei Decreti era senz’altro l’epoca dei sacerdoti degli hashtag e dei propri adepti.
Era il tempo in cui ogni riflessione collettiva su quanto stesse avvenendo era osteggiata, mal vista, bandita. Si pregava e ci si prostrava innanzi ad un simbolo venerandolo come un totem: #

I profili social si trasformavano in macellerie sociali e le persone erano compiaciute di poter contribuire alla caccia all’untore; erano proprio desiderose di bruciare le streghe sul rogo e riprendersi tutti quei piccoli piaceri dell’esecuzione pubblica a cui solo uno scherzo dell’anagrafe aveva impedito loro di prendere parte. Erano assetati di colpevoli e spintonavano nelle file virtuali per arruolarsi nell’Esercito Reale dei Decreti. Gareggiavano a dimostrarsi più realista del Re. Un continuo reclutamento di battaglioni di persuasori e di spie.
I blindati dell’Impero battevano le strade diffondendo la parola del Decreto. Il Ministero della Propaganda dell’Impero si interrogò su come proporre il nuovo nemico. Non era una cosa semplice; il nemico questa volta risultava invisibile ed evanescente, non poteva essere sbattuto in Tv o sul web. Occorreva, tuttavia, individuare una soluzione e farlo alla svelta poiché si correva il serio rischio che qualcuno potesse additare l’Impero stesso come prossimo nemico. Fino ad allora il pericolo contro cui schierarsi era fatto di carne, di ossa, di sangue ma con la carta di identità di un’altra parte del mondo.

A quel punto l’idea venne da sé: il vostro nuovo nemico sarete voi stessi! La folla dei social acclamò entusiasta. Uno dopo l’altro i nemici pubblici furono indentificati, sommariamente processati, infine giustiziati e gettati nelle fosse comuni. Era la sorte che spettava a chi ancora non aveva capito che con i Decreti era cambiato il modo di guardare al mondo e con esso era cambiata anche la grammatica. Non era più lecito coniugare i verbi in sei persone; era un uso desueto e irresponsabile dell’evolversi sociale della lingua. Restarono in vigore solo due persone: la prima e l’ultima. Io e loro.

Loro prendono il treno per tornare a casa.
Io resto a casa e li insulto.
Loro escono.
Io li riprendo con lo smartphone.
Loro diffondono la malattia respirando la mia stessa aria.
Io avverto la polizia.
Loro lavorano nei capannoni.
Io compro su Amazon.
Loro muoiono nelle carceri.
Io dico che se lo meritano.
Loro mi portano la merce a casa che mi aiuta a passare il tempo.
Io gli apro ma devono starmi lontano che stanno tutti assiepati nei magazzini.
Loro lavorano quattordici ore negli ospedali.
Io applaudo dai balconi.
Loro muoiono.
Io no.
Io muoio.
Per colpa loro.

Grazie a questa solerte partecipazione e a queste adunate social l’Impero del Decreto non ritenne di dover prendere misure ulteriori. Il sistema avrebbe tenuto. Non c’era alcun motivo di anteporre la sicurezza sanitaria collettiva a quella securitaria individuale. Piccole voci in lontananza incoraggiavano il diffondersi del malcontento circa le condizioni in cui versavano le strutture pubbliche; si chiedevano come mai non fosse stato disposto un piano di cura e prevenzione collettivo; serpeggiava la necessità di verità sull’origine dell’epidemia; si interrogavano su come si potesse vivere in dodici in una stanza. Tutte queste voci strisciavano nel sottosuolo. Si sentiva tremare leggermente la terra, come al passaggio di un treno della metropolitana sotto i posti di blocco.
Eppure, il furore non cambiava: la colpa è loro che non restano a casa, incoraggiava la televisione.
Sebbene avesse avuto mesi interi per prevenire e programmare la catastrofe, l’Impero del Decreto scelse deliberatamente di far trovare la popolazione impreparata. I deboli caddero come mosche. La colpa era interamente e unicamente di chi non restava a casa. Io devo salvarmi, devo salvare la mia famiglia e poco importa se la gente deve continuare a lavorare, se sta in galera o se è sola e non ha nessuno che può aiutarla.

Le risorse scarseggiavano. Le mascherine erano introvabili.
Un pugno di organismi ormai modificati da piogge acide e cambiamenti climatici rispolverò delle vecchie maschere antigas da una cantina. Erano poche e impolverate ma funzionavano ancora.
Le infilarono a turno per sottrarsi alla dittatura dei social, ai sacerdoti degli hashtag, alla prima persona singolare.
Le indossarono a turno, un’ora al giorno, per provare a respirare.
Cospirare vuol dire respirare. Insieme.