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“Credo sia indispensabile il controllo militare del territorio
con poteri eccezionali alle forze dell’ordine”
V. De Luca

Prima Rudy non viveva con noi a casa di Daria. Lo conoscemmo solo dopo, quando perdemmo Evelyn.
 Aveva accumulato già migliaia di euro di multe che non avrebbe mai potuto pagare. Usciva di tanto in tanto, rubava al supermercato e tornava a casa. Prima della Pandemia lavorava in nero in un parcheggio per auto a ridosso della Ztl, poi era rimasto a casa senza niente, senza neanche di ché pagare la casa stessa. Ma non lo arrestarono per i furtarelli; lo fermarono perché lo sorpresero per strada, senza motivo, il giorno che perdemmo Evelyn. Fu lui a chiamarci, a leggerci rapidamente al telefono il messaggio di una sconosciuta che abitava nel palazzo di fronte al suo. Quando la polizia arrivò non degnò nemmeno di uno sguardo Evelyn, andò dritta verso di lui. Il drone che avevano inviato in precedenza lo aveva già identificato. Violava apertamente la quarantena di sessanta giorni che gli avevano comminato qualche settimana prima ad un posto di blocco dell’Impero. L’arresto fu immediato. Restò dentro un anno buono. Quando uscì non aveva più niente. Così fece la sola cosa che gli restava: compose di nuovo il numero di casa di Daria, proprio come aveva fatto un anno prima. Eravamo preoccupati, non lo conoscevamo affatto. Tuttavia non potevamo lasciarlo solo. Se abbiamo costruito un pezzetto alla volta la nostra comunità è perché conosciamo il valore e la bellezza di un gesto di inclusione. Gli demmo l’indirizzo e ci raggiunse subito. La nostra diffidenza durò il tempo di una sigaretta; era esattamente come noi, come milioni di persone rinchiuse nelle proprie case e nelle proprie solitudini. Era anche un ottimo cuoco. Sera dopo sera ci raccontò tutto di lui. Solo di una cosa non ci parlò mai: del suo periodo di detenzione.
«Ho imparato in carcere» diceva quando cucinava o vinceva a ramino, poi gli si spegneva il sorriso e parlava d’altro. 
Il giorno della seconda sommossa era più irrequieto che mai. Le poche notizie che filtravano raccontavano di altri morti. Morti senza nome, senza ragione. Dietro ognuno di quei numeri c’era un volto, una storia, degli affetti, dei desideri, c’era un futuro da riconquistare. Eppure, per i tetri dispacci dell’Impero erano solo “morti”. Come la volta precedente, avrebbero fornito dati asettici e approssimativi, indicando la Malattia come causa del decesso; li avrebbero 
sepolti nelle fosse comuni e sigillato ulteriormente le mura delle carceri. 
Rudy fischiava una melodia triste e ogni tanto mormorava delle parole tra sé e sé, tormentandosi le unghie. Prese la maschera e restò un’ora steso sul suo letto, non venne neanche a mangiare. Quando si alzò cercò a lungo un disco dalla sterminata collezione di Daria e alla fine mise il pezzo che gli ronzava per la testa a tutto volume.

“So pizz’ ‘e case o so pizz’ ‘e galera

Addò staje chiuse d’a matina a sera

Si’ o purgatorio ‘e tutt’ chesta ‘ggente

Ca vive dint’ e barrache e vive ‘e stient’”

Le misure restrittive dell’ #iostoacasa sono iniziate solo da pochi giorni e ciononostante avvertiamo l’insofferenza dell’esser barricati dentro casa, del non poter coltivare passioni e affetti fuori dalle mura domestiche, del non poter uscire se non per andare a lavoro o per fare la spesa.

Certo non ci si riferisce ai sostenitori dell’hashtag di governo, quelli dei videomessaggi rasserenanti con il giardino della villa sullo sfondo; ma piuttosto alle persone normali, quelle che affollano i territori metropolitani e che vivono in case normali, condividono stanze e spazi con altre persone, con la paura di un nemico invisibile fuori la porta.

Adesso immaginiamo di non avere altre stanze oltre alla piccola camera da letto e il bagno, e di condividere quello spazio con altre 5, 7, 9 persone, per lo più sconosciute; immaginiamo anche che tutte le mattine, molto presto, passi qualcuno – proveniente dall’esterno – per contarci, e poi ancora la sera lo stesso, ma a fare la conta è un’altra persona; poi ci portano il pranzo e la cena, di pessima qualità, dopo averli consegnati a tutte le altre camere prima della nostra.

E così sempre uguale, giorno dopo giorno, le ore vengono scandite da colazione, pranzo e cena, intervallate dal carrello che propone un’ora d’aria, aria chimica in gocce o in pillola formato psicofarmaco.

Nella stanza si sta così stretti che se volessimo scendere tutti/e contemporaneamente dai letti a castello a tre piani, dovremmo stare in piedi, fermi, senza muoverci per non toccarci.

Immaginiamo anche che ogni abitante della stanza abbia i propri acciacchi, e che in questa cittadella sia già difficile curarsi in condizioni di normalità. Capita spesso di sentire di qualcuno che ci lascia le penne per patologie facilmente curabili.

I nostri familiari sono fuori, altrove. In un posto forse più sicuro. Forse. Non lo sappiamo. Ci arriva solo quello che dice la TV, né possiamo sentirli spesso.
Immaginiamo di non avere telefoni, computer, di non poter mai avere un abbraccio, una carezza, di non poter vivere più in alcun modo nessun tipo di affettività.

Uno starnuto dell’ultimo arrivato, forse allergia. Difficile capirlo perché non parla bene la nostra lingua.

Un colpo di tosse dalla stanza accanto, quella dove il carrello del vitto è passato a consegnare il pranzo prima di arrivare da noi.

Le notizie della diffusione della malattia in TV non si arrestano. Sembra una cosa grave. Dicono che se la malattia si diffonde non ci saranno posti per curare tutti.

Una mattina arriva la notizia. La situazione è talmente grave che si sospende tutto. Niente attività. Niente socialità. Niente colloqui coi familiari.

Solo noi, 10 in una cella.

Dicono che nella stanza in fondo al corridoio, uno aveva la tosse. Lo hanno portato in infermeria e non è risalito. Forse è in isolamento. E i compagni di cella?

Che sta succedendo? La mia famiglia come sta? Ci lasciano qua a morire?

Mentre il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri annunciato il 7 marzo vietava gli assembramenti, “invitando” a restare a casa con minaccia di una sanzione penale e disponendo come distanza di sicurezza tra le persone quella di almeno un metro, si ometteva di intervenire sulla situazione di cronico affollamento delle carceri.

Secondo i dati del Ministero della Giustizia, al 29 febbraio 2020 in Italia i detenuti erano 61.230, a fronte di una capienza regolamentare delle carceri pari a 50.931 posti. In altre parole, dove dovrebbero stare 100 persone lo Stato italiano ne ha confinate 120.

Per fare qualche esempio, a Poggioreale erano 2.373, su 1.633 posti previsti e una capienza reale di 1.515, a Regina Coeli a Roma 1.061 persone su 616 posti, a Brescia nel carcere Fischione i detenuti sono 366 e i posti 189, a Bologna nel carcere D’Amato sono confinati in 500 posti 891 detenuti, a Busto Arsizio 434 detenuti per 240 posti.

Non che il governo non avesse già la consapevolezza delle conseguenze disastrose che avrebbe l’esplosione di un’epidemia nelle carceri sul fragile sistema sanitario.

Le condizioni di fortissima promiscuità interna, date dal sovraffollamento e dalle scarse condizioni igieniche e sanitarie, sfocerebbero repentinamente in un contagio incontrollato e di massa di centinaia, migliaia di persone contemporaneamente.

Data l’impossibilità di isolare più persone allo stesso tempo, la gestione dei contagi non potrebbe che avvenire mettendo in quarantena le intere sezioni detentive, col sacrificio “controllato” dei sani, costretti a restare in sezione coi malati e quindi ad ammalarsi.

D’altra parte, questo è quanto già è stato previsto dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, che ha disposto che ai casi sospetti venga effettuato il tampone direttamente in cella, isolando la stessa ed eventualmente l’intera sezione detentiva.

Mentre scriviamo, sarebbero una ventina i casi accertati di positività al Covid-19 tra i detenuti, ma risulta impossibile avere informazioni sulla relativa gestione. Le notizie che giungono dai sindacati di polizia penitenziaria, parlano di almeno cento positivi tra gli operatori civili e di polizia. Al contempo, tra i parenti dei detenuti si parla di numeri molto più elevati di contagi tra i detenuti, che non possono essere né accertati né smentiti, dato l’assordante silenzio di autorità e mass media.

Al 29 Febbraio erano 7419 i detenuti e le detenute nelle carceri campane. Prima dell’emergenza, l’Italia poteva contare su 5.324 posti in terapia intensiva e 2.974 nei reparti di malattie infettive, un numero inferiore a quello dei ristretti della sola regione Campania. Con tutti gli sforzi dell’emergenza in corso, i letti in terapia intensiva sono aumentati di 470 unità, e si spera di arrivare a 1.850 posti in più.

Nella regione Campania i posti letto pre-emergenza erano 499, e ne sarebbero stati attivati altri 320. Altri sarebbero in fase di allestimento, con l’obiettivo dichiarato dalla Regione di raggiungere quota 590 in più. Insomma mille in totale, anche nelle previsioni più rosee.

La bomba epidemiologica che deriverebbe dalla diffusione del contagio nelle carceri, insomma, mette in pericolo di vita anche i liberi e i giusti, con buona pace dei “se lo meritano”.

In paesi come l’Iran – normalmente descritti dalla nostra stampa come dittature o “Stati canaglia” – sono stati liberati 85.000 detenuti per far fronte all’emergenza; in questi giorni giungono notizie della scarcerazione di detenuti addirittura i Albania, negli Stati Uniti ed in Turchia. Tutti paesi che certo non hanno mai brillato nella tutela dei diritti umani.

Il governo italiano aveva ed ha chiaro il pericolo in atto.

Infatti, il 7 marzo venivano bloccate le attività trattamentali – possibile veicolo di propagazione interna del virus – ed i colloqui con i familiari – possibile veicolo di introduzione del virus nelle carceri.

Anche l’istituto della semilibertà veniva sospeso. I semiliberi sono coloro che escono dall’istituto durante il giorno – il più delle volte per lavorare o anche per altre attività – con l’obbligo di rientrare la sera. Quindi non fa una piega: potrebbero portare il virus in carcere e generare un’epidemia interna incontrollabile. Dunque o solo dentro, o solo fuori, magari agli arresti domiciliari.

Per il governo non c’è dubbio: meglio solo dentro.

“Sono più al sicuro loro dentro, che noi fuori”, è la trasposizione sulle carceri degli slogan governativi #iostoacasa e #andratuttobene.

Al contempo, si taceva e si tace consapevolmente sul fatto che il carcere è una struttura tutt’altro che impermeabile, nella quale le persone entrano ed escono continuamente: nuovi arresti, nuove esecuzioni di pena, migliaia di operatori civili e di polizia penitenziaria che staccano e riattaccano a lavoro.

Chiunque abbia avuto un minimo a che fare con le carceri, si sarebbe aspettato le rivolte che ci sono state. Questo la dice lunga sulla capacità del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e del Ministero della Giustizia – con a capo il cinquestelle Alfonso Bonafede – di comprensione e di governo delle dinamiche che investono gli istituti di pena.

Ma una cosa è altrettanto chiara. L’effetto provocato dalle scellerate scelte del governo non è esclusivamente frutto di una gestione maldestra e di personale scarsamente preparato.

Si tratta in fondo di una scelta politico-filosofica, che a fronte dell’emergenza sanitaria, se concepisce la possibilità di sacrificare il “normale” funzionamento della vita sociale, di giustificare la compressione delle libertà individuali e collettive, la sospensione di molti diritti – temi sui quali andrebbe aperto un capitolo a parte – e il blocco di molte attività, non può tollerare però il sacrificio di valori preminenti quali la produzione industriale – per cui, guai a chiudere le fabbriche! – e la punizione.

Attenzione: la punizione, non la giustizia.

Perché anche l’attività dei tribunali è sospesa, se non per quei procedimenti che sono volti alla convalida dei nuovi arresti, all’applicazione di misure cautelari, di sicurezza e di prevenzione (come ci ricorda l’applicazione, pochi giorni fa, della misura della sorveglianza speciale da parte del Tribunale di Torino ad una militante italiana, per aver combattuto nelle fila del YPJ contro l’ISIS).

E così dal 7 al 14 Marzo si sono susseguite in tutta Italia rivolte all’interno delle carceri. Le rivolte hanno interessato più di ventisette istituti, alcuni dei quali sono stati completamente distrutti.

Da Milano a Modena, Bari, Foggia, Roma, Palermo, Rieti, Verona, Napoli si sono alzati cori di libertà e in alcuni casi vi sono state evasioni di massa.

Le sommosse sono state represse con la violenza dei manganelli. Teste aperte, trasferimenti in massa e morti. Tredici.

Mentre tutti ci barricavamo e si verificavano i primi assalti ai supermercati, centinaia di parenti e solidali supportavano dall’esterno i detenuti e le detenute che si battevano all’interno.

Nel frattempo, sono stati numerosi anche gli scioperi nelle maggiori imprese italiane, dalla Piaggio alla Fiat passando dagli hub della logistica.

Anche nelle fabbriche, come in carcere, le norme dei decreti non erano e non sono applicate.

Anche fuori alle fabbriche, come in carcere, gli scioperi sono stati vietati e repressi anche con la violenza.

Il lavoro non è più un’eccezione al divieto di uscire, in deroga alle misure di sicurezza. Il lavoro è un obbligo, nel nome della produzione nazionale.

Le mura del carcere non lasciano permeare le informazioni all’esterno.

I racconti delle violenze avvenute durante e dopo le rivolte ad opera della polizia penitenziaria, riescono a filtrare solo attraverso le poche, mascherate, conversazioni telefoniche con i parenti.

L’emergenza sanitaria ingombra il campo dell’informazione al punto da rendere trascurabile la strage compiuta sui detenuti, come la portata storica delle sommosse. Al punto che, pur di gettare l’ombra del complotto ordito contro lo spirito di unità nazionale con cui siamo chiamati ad affrontare l’emergenza, si è proposta la narrazione delle regie occulte dietro le sommosse. Della mafia, o forse dei centri sociali: insomma, quanto di più potesse delegittimare e stigmatizzare la lotta per la sopravvivenza messa in atto da parenti e detenuti/e.

E ancora, al punto da far passare inosservato che il Ministro Bonafede abbia riferito in Parlamento che i morti sono “per lo più riconducibili ad overdose” da farmaci.

Overdose.

Se anche fosse verificata (e verificabile) la ricostruzione di tredici detenuti che assaltano le farmacie per imbottirsi di metadone e psicofarmaci, questo dovrebbe dirla lunga sul grado di marginalità e disperazione che riempie le patrie galere. Ma il dubbio è più che giustificato.

– Per lo più. Rinconducibili – .

Espressioni, quelle del Ministro, che dovrebbero far rabbrividire anche i più giustizialisti.

Nessun organo di informazione main stream che si sia posto il problema di ottenere delle risposte dai detenuti, o quantomeno dai loro parenti.

Nella migliore delle ipotesi, sono state interpellate le associazioni che si occupano della tutela dei detenuti, chiamate a partecipare al grottesco coro della condanna delle violenze.

#Responsabilità. Con un meccanismo da pubblica inquisizione che non è troppo diverso dalla caccia al corridore o al vecchietto che passeggia al sole, le rivolte sono state interpretate come un comportamento irresponsabile dei detenuti, incuranti dell’emergenza sanitaria che mette in pericolo i liberi.

Anche l’associazionismo istituzionale a tutela dei detenuti si è prestato a questo gioco, risultandogli forse indigesto che i detenuti possano rappresentare qualcosa di diverso dalle vittime infantili, bisognose di aiuto umanitario e di educazione elargita paternalisticamente dalla propria posizione privilegiata. Un soggetto – detenuti e detenute – che non ci si aspetta, e in fondo non ci si augura, che possa autodeterminarsi e agire per sé stesso.

Qualcosa che proprio non è consentito a chi, al massimo, può essere concesso di produrre le mascherine per la salute dei liberi, e di prostrarsi ai piedi della società dei giusti per ottenerne il perdono.

Sia chiaro: mentre ancora si discute se si muoia “per” il Covid-19 o “con” il Covid-19, è chiaro che le carceri si siano rivoltate “con” il Covid-19 e non “per” il Covid-19.

La paura della diffusione del virus nelle carceri è stata la miccia per le rivolte, dato il sovraffollamento e le precarie condizioni igienico-sanitarie. Basti pensare alla frequente assenza di docce nelle stanze e l’utilizzo di bagni comuni, la frequente carenza di riscaldamenti e acqua calda, letti e pareti piene di muffa e infinite attese per visite mediche specialistiche. Nelle carceri si muore spesso di patologie banali, facilmente curabili all’esterno.

Le morti negli istituti di pena, solo negli ultimi dieci anni, sono state 1503.

La sommossa, dunque, nasce certamente dalla paura del contagio, ma ha radici ben più profonde che risiedono nelle drammatiche e disumane privazioni e sofferenze di cui vivono detenuti e detenute, testimoniate dal numero dei suicidi che solo negli ultimi dieci anni è stato di 558 persone.

Le sommosse sono avvenute con il Covid-19 e non per il Covid-19, perché detenuti e detenute non chiedevano solo tamponi ma amnistia. Non solo amuchina ma indulto. Non solo mascherine ma libertà.

Nei confronti della sollevazione spontanea di così tanti detenuti e detenute – che non hanno altro strumento per essere ascoltati/e – il rimprovero per la violenza suona più o meno come il biasimo al vento che soffia o alla pioggia che cade.

Le rivolte che adesso stanno dilagando nelle prigioni ormai di tutto il mondo, pongono qualcos’altro all’ordine del giorno.

Forse, finalmente, l’urgenza di interrogarsi sulla necessità e sulla utilità della segregazione penale.

Ciò che è certo è che le rivolte dei giorni scorsi hanno finalmente aperto una profonda crepa in quell’ideologia giustizialista che da troppo tempo governa il paese e la sua cultura, e che intellettuali garantisti, associazionismo progressista e politici illuminati non sono mai riusciti a far arretrare di un millimetro negli ultimi decenni.

In questo senso deve essere letto il provvedimento adottato qualche giorno fa, pur trattandosi di un decreto adottato dal governo più giustizialista della storia della repubblica italiana.

Un provvedimento indubbiamente del tutto insufficiente, falso e quasi inutile, sia per far fronte all’emergenza sanitaria, sia per risolvere il problema di un sistema punitivo ormai indiscutibilmente incapace di dare delle risposte alle cause economico-sociali che originano i cosiddetti fenomeni criminali. Ma certamente un provvedimento che mostra il terrore che lo Stato nutre verso la forza inarrestabile che avrebbe una presa di coscienza della popolazione detenuta e che finalmente costringe a parlare di uscite dal carcere, piuttosto che di nuovi ingressi o inasprimenti di pene.