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Perdemmo Evelyn in un pomeriggio di giugno uguale agli altri. Non era facile ricordare con precisione che giorno fosse. Di tutta la storia sono certe solo tre cose. La prima è che faceva caldo e noi non avevamo l’aria condizionata. La seconda è che avvisarono telefonicamente Daria della sua scomparsa con una telefonata anonima. La terza è che era giugno ed era il primo anno di quarantena.

L’Impero era da poco passato alla seconda fase dell’Ordine diffondendo il Nuovo Decreto, acclamato come uno straordinario successo dal popolo dei social. Le televisioni avevano mandato per due giorni ininterrottamente, a reti unificate, il discorso che introduceva le disposizioni del Decreto, il numero XVI. Era un lungo elenco di divieti e di rassicurazioni paternalistiche. Non c’era alcun pericolo per la popolazione, la sola condizione a cui conformarsi era restare in casa, non uscire, non aprire a nessuno che non avesse il permesso dell’Impero.

Le disposizioni si erano rese necessarie dall’aumento vertiginoso del numero dei furti. Poche sere prima, nel corso di una rapina a un tabaccaio erano morti in tre. Chiusi in casa, senza reddito, i non garantiti dalle norme del Decreto avevano a poco a poco varcato la linea che separa la legalità dal crimine su cui fino a quel momento erano stati in equilibrio. Sotto quella linea non c’era alcuna rete. C’era in ballo la vita, la propria e quella degli altri. L’Impero lo comprese in fretta e si affrettò a rendere pubbliche le nuove statistiche del contagio, sottolineando l’impennata di decessi e infettati registrata nelle ultime settimane. Le persone uscivano troppo, parlavano troppo, violavano deliberatamente i Decreti. E tutto questo accadeva nonostante i droni sorvolassero notte e giorno le città, nonostante l’esercito pattugliasse meticolosamente i quartieri e i rotori degli elicotteri smuovessero l’aria estiva. Migliaia di uomini in mimetica e maschere antigas si aggiravano per le strade già da quasi un anno; doveva essere una disposizione transitoria, resa necessaria dalla prevenzione della Pandemia. Ma la Pandemia non era mai passata e le misure straordinarie erano state rinnovate di settimana in settimana, poi di mese in mese; alla fine non vi fu bisogno di alcun rinnovo. I partiti che non erano entrati a far parte dell’Impero inizialmente avevano rivolto inviti ai cittadini a ricordarsi di non votare più per chi aveva gestito con inefficienza la crisi; così tanto confinati nei vicoli delle cabine elettorali non si erano resi conto che di elezioni non si sarebbe più parlato.

Poi erano cominciate le rapine e gli assalti ai supermercati a cui l’Impero aveva reagito emanando misure più restrittive e pene più severe e promettendo qualche vago aiuto economico alle famiglie in difficoltà. Era il bastone e la carota. Il bastone subito, la carota l’avrebbero vista forse un giorno i più meritevoli. Erano disposizioni assai più utili ed efficaci dei blandi appelli alla responsabilità. Era già accaduto dopo le prime rivolte nelle carceri. L’epidemia si diffondeva rapidamente anche dietro le sbarre e tutti gli istituti di pena furono scossi da sommosse mai viste prima. Morirono a dozzine, o almeno queste furono le informazioni che circolarono perché l’Impero non rese mai noti i nomi e le circostanze dei decessi. I rivoltosi furono colpiti duramente: furono rinchiusi in un carcere speciale, costruito in tempi record; non gli era concesso godere di ora d’aria, nessun colloquio, nessuna lettera, nessun giornale. I loro nomi, sì questi sì, vennero diffusi. Le famiglie furono oggetto di vessazioni e minacce da parte della stampa, dell’Impero e dei Volontari.

Il Decreto XVI, quello estivo, prevedeva l’abolizione delle autocertificazioni. Compilare i moduli aveva dato adito a troppe noie, troppi ricorsi, troppi casi da dirimere e, soprattutto, si trovava sempre un modo per superare il divieto. La nuova procedura snelliva questa burocrazia farraginosa. Da quel momento i permessi venivano elargiti direttamente dagli uffici del MIVRECO, Ministero della Vigilanza e Repressione del Contagio. Era sufficiente iscriversi al portale web inserendo i propri dati anagrafici, il proprio casellario giudiziario e il certificato sanitario rilasciato dal Ministero. A quel punto bastava compilare la domanda per ottenere il permesso, specificando dettagliatamente le ragioni della richiesta, il mezzo di trasporto che si intendeva utilizzare e le strade che si sarebbero dovute percorrere. Nel giro di pochi giorni sarebbe arrivata una mail che garantiva la possibilità di uscire all’esterno. Il foglio era diviso in due, con una linea tratteggiata al centro. Occorreva ritagliare la parte superiore e appuntarla sugli abiti affinché fosse immediatamente visibile ed identificabile sia dall’esercito dell’Impero che dai Volontari. Quest’ultimi avrebbero potuto avviare controlli immediati e salvare chissà quante vite umane semplicemente inquadrando il QR code dal proprio balcone e inviandolo attraverso una specifica App all’impero, sezione MIVRECO, il quale a sua volta avrebbe incrociato i dati assicurandosi che il permesso fosse effettivamente valido e in vigore. Inoltre il Ministero garantiva un tampone ad ampio spettro per monitorare le condizioni di salute a chiunque avesse aiutato a sorprendere in flagrante un criminale uscito senza permesso. L’offerta era valida per sé e per la propria famiglia.

Prima di allora Daria e gli altri erano andati a trovare Evelyn di nascosto o con qualche scusa. Passavano a fare la spesa e con le buste cercavano di eludere la sorveglianza. Si rifugiavano nei portoni e si fingevano condomini.  I volontari dell’Impero, le spie degli smartphone, riprendevano qualunque cosa si muovesse per poi inviare i video tramite l’App del MIVRECO. Per sfuggire ai mille occhi dell’Impero restavano rintanati sotto le scale o nei seminterrati sperando che smettessero di riprenderli e poi tiravano dritti verso casa di Evelyn.

Da quando il Ministero l’aveva categorizzata come afflitta da una malattia mentale da cui era impossibile guarire e ristabilirsi, le aveva categoricamente imposto di non uscire e le avevano stretto il braccialetto elettronico con segnalatore GPS alla caviglia. Gli ospedali erano saturi e non era possibile sprecare del tempo a cercare di curare chi non sarebbe mai potuto guarire, così stabilì il Governo dei Decreti. Migliaia di sofferenze rimasero inascoltate, migliaia di solitudini affogarono nel dolore dei malati e dei loro parenti impotenti. Degli addetti le facevano visita una volta alla settimana somministrando farmaci che il più delle volte la facevano dormire per giorni. Era proprio quello che non voleva. Gli incubi notturni erano ancora più veri e terrificanti di quello che vedeva di giorno. Le somministrarono il litio e i suoi incubi non fecero che aumentare. Daria sapeva di rischiare la libertà e la vita eppure non la abbandonò mai. Sapeva quanta bellezza c’era in solo un gesto di inclusione.

Un pomeriggio Evelyn chiamò a casa dicendo che non poteva più muoversi, che la tenevano prigioniera, che non poteva scendere dal divano senza tagliarsi. Daria indossò in tutta fretta la tuta mimetica, mise una parrucca per coprire i suoi capelli viola, sputò sul vetro della maschera antigas e la mise sul volto. Il caldo sotto tutta quella roba era asfissiante. La parrucca prudeva maledettamente; fu così che una ciocca dei suoi capelli spuntò fuori dal cappuccio e uno smartphone la filmò mentre attraversava di corsa una strada deserta. La sua immagine fece il giro del web. Tutti si chiedevano chi fosse la donna dai capelli viola che correva; era una madre? doveva comprare urgentemente del latte per i propri figli? Era un’agente dell’Impero? Era una puttana che correva da un cliente all’altro? Il popolo si divideva tra indulgenza paternalistica e odio feroce. Il dibattito durò alcuni giorni poi fece notizia qualcos’altro.

Daria aveva le chiavi, ma bussò prima lo stesso. Dall’interno non proveniva alcun rumore. Trovò Evelyn rannicchiata in un angolo del divano. Aveva ferite, graffi e tagli sul viso, sulle gambe, sul petto. Diceva che ad ogni suo pensiero si srotolava un gomitolo di filo spinato da una parte all’altra della casa. Non c’era modo di alzarsi dal divano senza ferirsi. Era il preludio della crisi che ce la fece perdere definitivamente. 

All’epoca Rudy non viveva ancora con noi, glielo raccontammo io e Maz durante uno dei lunghi pomeriggi di silenzio di Daria. Pomeriggi trascorsi a guardare e riguardare il volto di Evelyn affacciarsi alla finestra e guardare sotto. Molti la ripresero mentre si alzava in piedi sul davanzale e faceva dell’asfalto, quattro piani più giù, il suo unico orizzonte. A migliaia non resistettero a mandare in diretta il suo il volo. Saltò, nel vero senso della parola. Spiccò un salto verso l’alto, non verso il basso. La ripresero tutti mentre rantolava per terra, mentre la vita le scivolava via. Ma nessuno se la sentì di uscire di casa per sincerarsi delle condizioni. La paura di contrarre la malattia era più forte di tutto. Solo un ragazzo indossò maschera e guanti e si precipitò per le scale, era Rudy. Una chiazza di sangue nero si allargava attorno al cranio di Evelyn. Nella mano sinistra stringeva fortissimo un bigliettino con una lettera indirizzata a Daria e un numero di telefono. Un drone prese a sorvolare inquadrando la scena, poi arrivarono le pattuglie e le ambulanze. Prelevarono il ragazzo per aver violato l’obbligo di quarantena a cui era sottoposto.

Fu così che conoscemmo Rudy, lo stesso giorno che perdemmo Evelyn.

 

Numerosi studi si sono occupati di mettere in correlazione lo stato di quarantena con la sofferenza mentale. Tra il 2003 e il 2005, in seguito all’emergenza sanitaria della Sars, è emerso che isolamenti anche inferiori ai dieci giorni possono causare effetti psicologici negativi a lungo termine. Ancora dopo tre anni dalla quarantena si registrano sintomi di stress post traumatico e abuso di alcool o altre sostanze.
Stando agli studi, il timore del contatto sociale che stiamo introiettando in questo periodo, rimarrà nel tempo. La logica della paura, del terrore degli untori e delle relazioni sociali daranno vita a comportamenti evitanti di cui sarà difficile liberarsi.
Gli effetti economici della quarantena inoltre, come la perdita del lavoro e/o di reddito, si protraggono nel tempo e rischiano di peggiorare ulteriormente le condizioni psicologiche. Le donne e i giovani tra i 16 e i 24 anni sembrano i soggetti più colpiti dagli effetti psicologici della quarantena.
Oltre a questi soggetti, dentro le mura delle case sono bloccate milioni di persone già fragili che rischiano danni irreparabili alla propria salute mentale, se non letteralmente la vita. Persone soggette a malattie psichiatriche come depressione (secondo l’ISTAT, nel 2015 circa 2 milioni e 800.000 italiani), ma anche schizofrenia (245.000 italiani circa), disturbi bipolari (circa 1 milione di persone), dipendenza da sostanze, demenze.
Persone per cui, un regime di isolamento forzato, con l’obbligo di rinunciare a contatti umani, personali o terapeutici, è un forte danno nonché un importante predittore di sintomi futuri più gravi.
La sofferenza psichica non è una leggerezza e nel 2016 ha causato oltre 21000 morti in Italia. A tal proposito è emblematica durante questa emergenza l’impennata dei casi di trattamento sanitario obbligatorio. A Torino, ad esempio, da una media di un TSO ogni due giorni, con il lockdown si è passati a picchi di nove TSO al giorno.
Ad allarmare comincia ad essere anche il numero di suicidi legati in qualche modo al #Covid19 in Italia.

Il primo ad essere registrato è stato il 13 marzo dove un uomo di Pavia di 65 anni ricoverato per una forma di broncopolmonite in attesa del risultato del tampone si è gettato da una finestra del terzo piano dell’Ospedale Maugeri di Montescano. Fatale per l’uomo sembra essere stata la paura di essere stato contagiato. Un altro atto estremo è stato quello di una donna di 49 anni di Cortellazzo vicino Jesolo, infermiera in terapia intensiva. Dopo giorni intensi di lavoro, l’operatrice sanitaria aveva cominciato ad accusare febbre. Il suo corpo è stato trovato da un pescatore vicino al fiume Piave. La lista si è allungata con il gesto estremo di una donna di 52 anni di Salerno che soffriva di un leggero stato depressivo. Ossessionata dal timore di poter essere contagiata da COVID19  si è lanciata dal balcone della sua abitazione. A Carmagnola (TO), un ragazzo di 29 anni, si è tolto la vita dopo aver saputo della chiusura temporanea dello stabilimento presso cui lavorava, tormentato dalla paura di essere licenziato. Il 31.03.2020 ha scelto di togliersi la vita un uomo, un padre, che qualche giorno fare era uscito in bici con il figlio piccolo per fare un giro attorno casa, da soli. Fermato dalla polizia è stato multato e non sarebbe riuscito a sopportare il peso di una repressione così imponente, o almeno così ha detto Angelo Borrelli, capo dipartimento della protezione civile.
Eppure, nonostante un’emergenza così tangibile, con l’ordinanza n. 16 del 13 marzo della regione Campania si ordina “con decorrenza immediata” la sospensione su tutto il territorio regionale delle “attività sanitarie e assistenziali di tutti i servizi sanitari e socio-sanitari territoriali semi-residenziali pubblici e privati (Riabilitazione estensiva, Centri Diurni per anziani e per disabili non autosufficienti, pazienti psichiatrici minori e adulti) nonché tutti i servizi sociali a regime diurno attivati dagli ambiti sociali.”

Ci sarebbe molto da riflettere su questa decisione dello Sceriffo De Luca; non sarebbe stato meglio mantenere in funzione i servizi, seppur con le dovute cautele, invece di chiuderli del tutto?
Forse questa decisione è stata presa sulla base di una già pregressa assenza di sostegno a tutta la rete della salute mentale?
Invece, il governo, nel decreto legge n. 14 del 9 marzo 2020, ha prescritto la facoltà per le Regioni di “istituire, entro dieci giorni […], unità speciali atte a garantire l’erogazione di prestazioni sanitarie e socio-sanitarie a domicilio in favore di persone con disabilità che presentino condizione di fragilità o di comorbilità tali da renderle soggette a rischio nella frequentazione dei centri diurni”.
La regione Campania però non si è posta questi problemi. Nessuna unità speciale è stata organizzata nè si è pensato ad un modo per sopperire all’interruzione della continuità terapeutica fondamentale nelle cure psicologiche, psichiatriche e riabilitative delle disabilità.
D’altro canto la Regione interviene direttamente sulla salvaguardia dei Livelli essenziali di assistenza (i Lea) che, nella loro definizione generale, sono individuati e definiti dallo Stato.
Sono peraltro del tutto assenti per la salute mentale, come più complessivamente per la disabilità, specifiche e puntali indicazioni su modalità di intervento e azioni per garantire la continuità terapeutica. Le direttive governative e regionali si limitano a restringere l’operatività dei servizi (la chiusura dei centri diurni e semi-residenziali, prima realizzata a macchia di leopardo, è ora estesa dal Cura Italia a tutto il paese). Le indicazioni sull’assistenza domiciliare sono vaghe, spesso inefficaci e prive di logica terapeutica. Le misure di sostegno a distanza sono ancora tutte da mettere in campo, e spesso addirittura contraddittorie: dal dipartimento salute mentale dell’ ASL Napoli 1, per esempio, in una circolare del 19 marzo si afferma che “un intervento a distanza – videochiamata, telefonata, collegamento skype – rappresenta una modalità di prendersi cura ma non può essere considerato una prestazione sanitaria di cura”, escludendo, di fatto, le attività in remoto per trattamenti come logopedia e psicoterapia dai setting assistenziali attivabili dai centri di riabilitazione, innanzitutto quelli per minori.
In diverse realtà territoriali i centri di salute mentale (su disposizione dei direttori sanitari, o dei dipartimenti di salute mentale o delle stesse regioni) restano aperti sospendendo la loro ‘attività ordinaria’. Utilizzando come motivazione la carenza di dispositivi di sicurezza, hanno sospeso tutte le attività riabilitative, assicurando esclusivamente farmaci, interventi d’emergenza, ricoveri e TSO. In altre realtà, gli operatori, adottando tutte le misure di sicurezza, continuano a garantire assistenza e cure sia nei servizi che al domicilio dei pazienti.
Insomma nella situazione attuale, in cui le persone fragili dovrebbero essere semmai maggiormente sostenute, si sta mettendo a forte rischio la salute mentale dei cittadini. Per la tutela della salute pubblica bisognerebbe garantire il funzionamento della rete territoriale della Salute Mentale, a partire dai servizi territoriali rivolti agli anziani, alle persone con disabilità, alle persone con malattie croniche.
Immaginate, perciò, le preoccupazioni che ciascuno sente così pesantemente sul proprio corpo in questo periodo e il dolore di una sofferenza che è già nella mente e adesso resta anche intrappolata tra le mura di casa, non solo quella dei o delle sofferenti psichiche, ma anche quella dei e delle loro cari e care. Questo è quello che scriveva, in un commento sotto un articolo di un giornale online, una donna in questi giorni: “Sto vivendo con mio figlio ed è devastante! Per lui, per me. La casa non è neppure una prigione, ma un campo di battaglia e siamo allo stremo delle forze. Distrutta la quotidianità, ferma la riabilitazione, ferme le terapie, interrotta l’assistenza di base, l’assistenza alla persona e l’assistenza educativa.
Abbandonati a noi stessi. La clausura forzata unita alla mancanza di supporto sfociano in una frustrazione incontenibile che diventa pericolosa per chi non è in grado di gestirla o esprimerla. È devastante”.
A compensare questo aspetto sono state, negli ultimi giorni, numerose associazioni legate a temi psicologici e psichiatrici e liberi professionisti della salute mentale che hanno offerto servizi di consulenza gratuita telefonica o attraverso le chat messe a disposizione dai social network, non riuscendo comunque a rispondere a tutte le esigenze.
Il peso dell’assistenza psichiatrica e psicologica, torna così a cadere quasi interamente sulle spalle delle famiglie. E la situazione non migliora se spostiamo lo sguardo sui servizi residenziali.
Nelle strutture residenziali, sia quelle per anziani che quelle per disabili, dall’inizio di questa crisi sono vietati i periodici ritorni presso il domicilio, ma anche le visite. Eppure sono tanti gli anziani che in tutta Italia si stanno contagiando e stanno morendo nelle Rsa, migliaia in pochi giorni. Così come sono moltissimi gli operatori che continuano il lavoro di assistenza, si contagiano, si ammalano, a volte muoiono, nel silenzio delle istituzioni.
Sarebbe necessario che il Governo, d’intesa con le Regioni, emani disposizioni valide su tutto il territorio nazionale chiarendo che i servizi di prossimità devono garantire ovunque le attività terapeutiche e riabilitative, rispettando le misure di prevenzione e protezione per operatori e utenti, e indicando esplicitamente le tipologie di attività da garantire. Questo orientamento è tanto più necessario di fronte a scelte difformi tra le regioni.
In salute mentale, come in tutti gli altri settori della società, pure il virus non è uguale per tutti.

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A Lorena.

 

Uno.

Esistono cose che tutti “sappiamo” ma che non vediamo. Il processo di invisibilizzazione si compie in modo subdolo attraverso i nostri corpi e i nostri pensieri quasi fossimo scorporate da quello che viviamo e sentiamo, la retina non riconosce il dato, ne trasmette una lettura falsata, ambigua, non riconoscibile. Ho compreso di aver bisogno di lenti speciali per capire e poter finalmente vedere, in un giorno qualsiasi, lontano da ogni minaccia di pandemia. Avevo cambiato appartamento ed avevo fatto richiesta per il cambio di residenza, dopo l’infinita trafila burocratica, l’iter sembrava quasi essersi compiuto. Avrei dovuto aspettare il controllo della polizia municipale che avrebbe testimoniato la veridicità della mia nuova residenza. Il vigile entrò trafelato nel mio appartamento e iniziò a compilare il modulo:

-è una casa studenti questa?

-no. Non sono una studentessa.

-c’è un’altra persona alla quale è intestato il contratto.

– si, il mio compagno

– va bene, quindi barro la casella casalinga?

– disoccupata

– devo barrare la casella disoccupato?

– si disoccupatA

Silenzio

-Abbiamo finito, arrivederci.

Avevo compilato svariati moduli per quell’operazione, senza mai essermi resa conto che tra le varie opzioni comparissero i termini casalinga e disoccupato rispettivamente declinati al femminile e al maschile. Così, io stessa avevo passato in rassegna la casella da barrare senza vedere quel piccolo particolare. Quel giorno, invece, ho messo a fuoco per la prima volta il concetto di visibile e invisibile. In qualche modo lo stato mi stava mandando un messaggio preciso: come disoccupata io non esisto. Una presenza/assenza, in fin dei conti, ma anche la rappresentazione di una realtà che tutti “sappiamo”: una donna che non svolge un lavoro subordinato, ne svolge un altro non riconosciuto all’interno delle mura domestiche. L’affermazione del vigile, inoltre, era stata consequenziale alla constatazione del mio vivere in casa con un’altra persona di sesso maschile con la quale avevo una relazione. Quindi, era la presenza di un uomo a determinare la mia assenza? O bastava il mio genere a caratterizzare la mia funzione sociale: di cura e riproduzione?
Così ho acceso il pc e ho iniziato a cercare documenti, articoli e dati che potessero chiarirmi la visione delle cose. Volevo capire come il mondo al di fuori di me si rapportasse alla questione e una sfilza lunghissima di dati mi si è profila davanti. Istat, Ue, Confindustria e Confartigianato, una cascata di numeri mi si sono rovesciati addosso.

“Nel 2016 nell’Ue, il 79 % delle donne cucina e/o svolge attività domestiche quotidianamente, rispetto al 34 % degli uomini.
Nell’Ue nel 2018, il tasso di disoccupazione è il 7,1 % per le donne e il 6,6 % per gli uomini.
Nel 2017, le donne hanno guadagnato il 16,0 % in meno degli uomini nell’Unione europea, se si confronta la retribuzione lorda oraria media.
A livello d’indicatore non corretto, il divario retributivo fra donne e uomini fornisce un quadro generale delle diseguaglianze di genere in termini di paga oraria. Parte delle differenze di retribuzione si possono spiegare con le caratteristiche individuali delle donne e degli uomini occupati (per es. esperienza e istruzione) e con la segregazione di genere a livello occupazionale (per es. ci sono più uomini che donne in alcuni settori/occupazioni con retribuzioni mediamente più alte rispetto ad altri settori/occupazioni). Di conseguenza il divario retributivo è legato a svariati fattori culturali, legali, sociali ed economici che vanno molto oltre la mera questione di un’uguale retribuzione per un uguale lavoro”. Istat
Insomma, un segreto di pulcinella quello del lavoro riproduttivo svolto dalle donne, che tutti sappiamo ma che non vediamo, perché se riuscissimo a vederlo ne coglieremmo altri aspetti e cioè che ci viene sottratta con l’inganno una quantità di tempo, di forza lavoro fisica e mentale, centrale per la riproduzione del sistema economico nel quale viviamo.
Hanno coniato un termine: casalinga, per inculcarci che il lavoro di cura si svolge per “vocazione”. Per assenza, o per presenza di altri.

Mentre mi interrogavo su tutte queste questioni è scoppiata la pandemia e Irina è morta ammazzata di botte dal compagno, in un reparto dell’Ospedale Pellegrini di Napoli dopo giorni e giorni di agonia, con gli organi spappolati dalle continue botte ricevute, ma i giornali questo non ce lo hanno detto. Hanno preferito somministrarci una narrazione colpevolmente ambigua finalizzata ad attribuire la responsabilità della morte alla “devastazione” del pronto soccorso dell’Ospedale. Irina ha avuto un nome per qualche istante, solo perché le condizioni nelle quali è stata assassinata ben si prestavano al racconto romanzato e melodrammatico più consono alla situazione politica attuale. Irina è esistita per qualche ora, poi è stata sepolta in solitudine, all’ombra della pandemia.

Nel 2019 l’Istat ci ha fornito dei dati per indagare il numero di violenze e femminicidi perpetrati nel nostro paese: 95 donne ammazzate nel 2019 in Italia, in media una ogni 3 giorni.

Un genocidio direbbe qualcuna. Un genocidio che si compie al riparo delle mura domestiche, perché stupratori e assassini vivono nelle nostre case. Così il governo ci ha detto di restare a casa, perché c’è la pandemia e la gente muore. Irina è morta in ospedale ma è stata ammazzata proprio in quella casa dove sarebbe dovuta restare. Tra gli innumerevoli decreti emanati, nessuna parola si è spesa per chi a casa non è al sicuro, per chi rischia di morire non di covid ma di botte. Ho letto da qualche parte che le donne saranno tutelate durante la pandemia. Da chi, mi chiedo? Da quel che resta dei centri antiviolenza ai quali sono state tolte risorse e fondi, da quei centri che su molti territori sono scomparsi per volontà di politiche governative, regionali e comunali? Da quelle stesse giunte che hanno messo in vendita Lucha y Siesta?
Sì, questo passa lo stato.

Il volto rassicurante del presidente del consiglio ha accompagnato le sere di molte di noi.
Con voce pacata i ministri ci hanno chiesto di essere pazienti, di tollerare e arginare la violenza. Restate a casa in nome di una ragion di stato più importante. Ancora una volta mi sono sentita invisibile, la mia vita e quella di migliaia di donne sono invisibili. Tutte lo sanno, ma nessuno le vede o vuole vederle.
Ho avuto la sensazione di soffocare, mi sono affacciata al balcone, avevo bisogno d’aria.
Le voci delle donne del vicolo ossigenavano i miei polmoni. Convenivano che restare a casa e uscire solo per far la spesa non era poi così insolito. La cosa insolita era starci con gli uomini.

 

Due.

Il 17 marzo il Governo ha emanato un nuovo decreto, lo ha chiamato “Cura Italia”. Il decreto dovrebbe tutelare aziende e lavoratori, garantire il sostentamento degli italiani e delle loro famiglie.
Nonostante il presidente del consiglio abbia tentato di mantenere un tono rassicurante durante le sue dirette social, è risultato fin da subito evidente quanto nel suo discorso, come d’altronde nel decreto, vi fossero crepe enormi che lasciavano sguarnite d’ogni tutela milioni di donne.
Emerge in maniera chiara che il suo concetto di tutela passi per una contrattualizzazione che non tiene conto della situazione reale nella quale versano proprio quei milioni di lavoratrici in nero, precarie, non garantite, di molteplici settori.
Ancora una volta il concetto ruota intorno al binomio presenza/assenza, visibile/invisibile.
Proprio l’Unione Europea durante la conferenza dell’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di genere ha illustrato quanto il lavoro precario sia una prerogativa quasi esclusivamente femminile. Vengono elencati anche i parametri utilizzati per definire le disparità di trattamento tra uomini e donne.
Il primo parametro è il salario basso; il secondo sono le ore di lavoro (se si lavora meno di dieci ore la settimana allora si è precari); terzo, la tutela o la sicurezza del lavoro: se si ha un contratto a tempo determinato per dodici mesi lavorativi o se il contratto può essere sciolto senza preavviso, allora si è precari. Una donna su due ha un lavoro precario. Ancora una volta è l’Ue a suggerirci quanto il precariato rappresenti un aspetto centrale nella disuguaglianza di genere, perché “provoca automaticamente una dipendenza economica dal coniuge o dalla famiglia, aumenta la povertà e incide sulla violenza”.

Come sottolineava Bourdieu «Iniziamo a sospettare che la precarietà sia il prodotto non di una fatalità economica, identificata con la famosa mondializzazione, bensì una volontà politica. La precarietà si inserisce in una modalità di dominio di nuovo genere, fondata sull’istituzione di uno stato generalizzato e permanente di insicurezza che tende a costringere i lavoratori (e ancor di più le lavoratrici, Ndr) alla sottomissione, all’accettazione dello sfruttamento.»
Nell’ultimo trentennio hanno provato a inculcarci la convenienza del lavoro part-time come strumento in grado di inserirci nel mondo del lavoro, lasciandoci una fetta di tempo per noi o per le nostre famiglie. Potremmo dire, invece, in modo più appropriato, quanto quel tempo al di fuori del lavoro subordinato corrisponda ad un ulteriore tempo di lavoro non retribuito che, come tutti i tempi di lavoro non retribuiti, ha un preciso valore, sociale ed economico (Istat).

Se attualmente la precarizzazione risulta ben diffusa all’interno di tutta la classe lavoratrice è altrettanto vero che le donne ne siano state le cavie.

Se guardiamo alle prime forme di sperimentazione di lavoro part-time appare chiaro che queste siano state agite sui corpi delle donne. La retorica della flessibilizzazione del lavoro, articolata sulla necessità di conciliare la vita familiare con quella professionale, si traduce in lavoro di cura e di
riproduzione, finendo per forgiare un tipo di contrattualizzazione che non fa altro che precarizzare e smantellare i già erosi diritti di base. E tutto ciò non sarebbe stato possibile se non fosse diffusa la convinzione che il lavoro riproduttivo sia una prerogativa femminile. Attraverso le forme di teleselling, di smartworking non si è fatto altro che sperimentare fin dove la precarietà si potesse spingere. Paghe più basse, scarico dei costi fissi ai danni delle lavoratrici stesse, orari sempre più flessibili.
Stando ai dati anche la precarizzazione del lavoro ha un sesso. In Italia il 33% delle donne lavoratrici svolge un lavoro part-time, di queste il 60% è stata costretta nonostante avrebbe preferito un lavoro a tempo pieno, a fronte dell’8% dei lavoratori part-time uomini.
Recentemente numerose riviste e quotidiani hanno posto l’accento sul ricatto del part-time forzato. Non si contano le storie di donne costrette ad accettare la riduzione di orario e salario per evitare il licenziamento. Pertanto, se l’utilizzo del part-time è cresciuto negli ultimi anni in maniera considerevole e con esso l’occupazione femminile, ciò è avvenuto sulla base di un ricatto esplicito. Inoltre, in molti casi, le donne obbligate ad accettare un evidente peggioramento delle condizioni di lavoro e di retribuzione hanno comunque dovuto affrontare una mole di lavoro inalterata che ha di fatto raddoppiato lo sfruttamento ai loro danni.

Si dice part-time, si legge full time.

In questi giorni di pandemia, il governo ci ha invitate a lavorare da casa, omettendo però che i costi di elettricità, internet e gas non sarebbero più stati a carico delle aziende, ma delle lavoratrici stesse. Inoltre, assistiamo al diffondersi della pratica attraverso la quale le lavoratrici vengono messe in cassa integrazione, vedendosi dunque decurtare lo stipendio, salvo poi essere costrette comunque a lavorare. Si aggiunge, inoltre, per le donne genitrici, l’upgrade del continuare a lavorare all’interno delle mura domestiche dovendo, stavolta sì, conciliare il tempo di lavoro con quello di cura di figli e famiglia.
Sempre stando al rapporto Istat 2017/ 2019 il lavoro atipico risulta fortemente “femminilizzato”. Tra i mille alveoli all’interno dei quali precarietà, paghe da fame e incertezza lavorativa si codificano, possono essere infatti annoverate la miriade di forme contrattuali affinate nelle ultime normative sul lavoro. Non solo part time e tempo determinato, ma Co.Co.Co., chiamata e anche partite iva: è tendenza diffusa, riscontrata in numerose aziende, assumere dipendenti a tutti gli effetti inquadrandole però come collaboratrici esterne dotate di partita iva; ancora un altro modo per scaricare costi e bypassare tutele (no ferie, no malattie, etc).
Ad oggi, anche parlare di categorie contrattuali risulta estremamente fuorviante: piuttosto dovremmo parlare di una questione di genere.
Un recente articolo del sole 24 ore titola “Donne, sud, giovani: le tre fragilità del mercato del lavoro”. Non fa riferimento alla combo che si potrebbe innescare considerando la compresenza di queste tre categorie, e più che di fragilità forse dovremmo parlare di precise volontà politiche ed economiche, diremmo noi. Le stesse volontà che fanno sì che nel decreto Cura Italia non ci si prenda “cura” della situazione di tutte le precarie.

 

Tre.

“La pubblicità è ferma, non ci sono risorse per pagare i collaboratori esterni che dobbiamo mettere in pausa. Tra questi ci sei tu.”
Così sono stata licenziata per il covid19, una mail frettolosa senza possibilità di replica. La promessa del presidente in diretta nazionale: “non ci saranno licenziamenti per i prossimi due mesi”, smentita in un batter di ciglia. La questione è che le lavoratrici in nero non sono proprio classificate, poco conta sapere che lavoravo per uno di quelle testate sempre in prima fila nella denuncia delle ingiustizie altrui, poco conta sapere che una percentuale altissima di donne impiegate nei settori del turismo, della ristorazione, della movida, della cura e della formazione un contratto non lo ha mai avuto.
Eppure il governo non è affatto all’oscuro della situazione nella quale versa il paese. Sono inciampata in un documento ISFOL: “Il 47, 4 per cento dell’occupazione irregolare è donna” dice la presidente nazionale donna-impresa. Ne sono seguiti molti altri, discussi in senato e un lungo dibattito tra confindustria e il governo ha animato gli ultimi anni. Ho spulciato il decreto appena emanato per capire se avessi avuto diritto a qualche forma di tutela per questo licenziamento, ho controllato tra postille inesistenti per capire se avessi avuto la possibilità di sostentarmi in qualche modo, di pagare affitto e bollette. Nulla. Per le lavoratrici in nero, non c’è nulla.
Negli ultimi giorni pare che il governo sia corso ai ripari, dichiarando che ci saranno tutele anche per chi non era mai stata nominata nei precedenti decreti. Sarà che la gente ha iniziato ad essere esasperata e ha cominciato a prendere con la forza ciò di cui aveva bisogno, sarà che ci hanno insegnato la meraviglia verso la gente che ruba il pane, il presidente si è sentito in dovere di sussurrare qualche parola anche per noi fantasmi della società. Se un timido balbettio è stato pronunciato, resta ancora una profonda assenza nei proclami pubblici: quella inerente al lavoro migrante, regolare e irregolare, che per il settore di cura coincide al 90% con lavoro femminile (Istat).

Tutte le badanti, anche quelle regolarizzate, allo stato attuale non hanno ancora diritto ad alcun tipo di sovvenzione. Per loro non è prevista nessuna sospensione dal lavoro, anzi un aumento notevole della sua mole e anche una sospensione totale di diritti: le badanti domiciliate nel luogo di lavoro, in nome della sicurezza nazionale e del #restateacasa, hanno dovuto rinunciare ai loro giorni festivi, alle loro pause e si sono dovute piegare allo sfruttamento h24. Anche in questo caso i rapporti governativi ci obbligano a constatare un’amara verità: il lavoro migrante è in buona parte non regolarizzato e investe numerosi settori, in primis quello agricolo e di cura, ma proprio quest’ultimo esprimerebbe un’esigenza delle famiglie italiane, incapaci di sostenere i costi contrattuali delle loro dipendenti. Tra le righe si afferma, quindi, che tutto sommato i diritti e la vita delle donne migranti possono essere accantonate. A tal proposito la pandemia ha mandato al macello tutte le persone non regolarizzate e senza permesso di soggiorno. Le autocertificazioni per le “irregolari” non sono contemplate. Dunque chi non è in grado di motivare i propri spostamenti per motivi di lavoro (che ufficialmente non risulta), deve aggiungere alla paura della sanzione, il terrore del controllo della verifica del titolo di soggiorno, con un conseguente pericolo di espulsione che costringerebbe a lasciare affetti e lavoro.
Così da parte delle “famiglie bisognose”, si esercita un ulteriore ricatto volto a costringere le badanti a sottostare ad orari massacranti o al contagio. In sintesi, ad un ricatto costante. Una regolarizzazione del lavoro sommerso, stando al nostro ordinamento, non esiste per chi è in nero e non ha permesso di soggiorno. Per le leggi in vigore, infatti, non è bastevole un’offerta di lavoro per ottenere un regolare permesso di soggiorno. That’s it.

Nel magma del lavoro nero o della disoccupazione ci sono situazioni completamente differenti: quelle ai limiti della schiavitù del settore migrante, quello delle operaie a nero, delle babysitter lasciate a casa con o senza voucher, delle artigiane, impiegate, lavoratrici dello spettacolo, operatrici di call center, commesse, bariste, cameriere, insegnanti private e a chiamata, precarie del turismo e di tutti i servizi annessi. Insomma per ogni categoria “protetta” ce ne sono decine e decine scoperte. Il presidente, per essere onesto, avrebbe dovuto dire che chi ha un contratto che lo tutela, sarebbe sopravvissuto alla pandemia, chi non ha questa “fortuna” o diritto, avrebbe dovuto iniziare a capire in che modo sopravvivere. E capire in che modo esistere nella nebulosa dei decreti è operazione tutt’altro che semplice.

I dati Istat, i rapporti Isfol, di confindustria e confartigianato li leggo ogni sera, non perché io abbia bisogno di qualcun altro che mi dica quale sia la situazione delle donne nel paese, a me basta ascoltare, leggere e sentire quello che le sorelle in Italia e nel resto del mondo raccontano. Io li leggo per avere la certezza che della miseria della quale parliamo, ne sono a conoscenza anche politici, industriali, padroni e istituzioni, che ancora una volta fingono di non vedere e ci confinano in quella parte invisibile del mondo. Quella parte nella quale il nostro corpo, a prescindere da quello che si ha in mezzo alle gambe, è costantemente abusato e invisibilizzato. Ho bisogno di leggerli per ricordarmi che per loro curare ha un solo significato.

CURARE è PUNIRE.

Dopo la pandemia non torneremo alla normalità, perché la normalità fa schifo. Dopo la pandemia ci prenderemo il pane e faremo fiorire le nostre rose nella rabbia e nell’amore.

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“Credo sia indispensabile il controllo militare del territorio
con poteri eccezionali alle forze dell’ordine”
V. De Luca

Prima Rudy non viveva con noi a casa di Daria. Lo conoscemmo solo dopo, quando perdemmo Evelyn.
 Aveva accumulato già migliaia di euro di multe che non avrebbe mai potuto pagare. Usciva di tanto in tanto, rubava al supermercato e tornava a casa. Prima della Pandemia lavorava in nero in un parcheggio per auto a ridosso della Ztl, poi era rimasto a casa senza niente, senza neanche di ché pagare la casa stessa. Ma non lo arrestarono per i furtarelli; lo fermarono perché lo sorpresero per strada, senza motivo, il giorno che perdemmo Evelyn. Fu lui a chiamarci, a leggerci rapidamente al telefono il messaggio di una sconosciuta che abitava nel palazzo di fronte al suo. Quando la polizia arrivò non degnò nemmeno di uno sguardo Evelyn, andò dritta verso di lui. Il drone che avevano inviato in precedenza lo aveva già identificato. Violava apertamente la quarantena di sessanta giorni che gli avevano comminato qualche settimana prima ad un posto di blocco dell’Impero. L’arresto fu immediato. Restò dentro un anno buono. Quando uscì non aveva più niente. Così fece la sola cosa che gli restava: compose di nuovo il numero di casa di Daria, proprio come aveva fatto un anno prima. Eravamo preoccupati, non lo conoscevamo affatto. Tuttavia non potevamo lasciarlo solo. Se abbiamo costruito un pezzetto alla volta la nostra comunità è perché conosciamo il valore e la bellezza di un gesto di inclusione. Gli demmo l’indirizzo e ci raggiunse subito. La nostra diffidenza durò il tempo di una sigaretta; era esattamente come noi, come milioni di persone rinchiuse nelle proprie case e nelle proprie solitudini. Era anche un ottimo cuoco. Sera dopo sera ci raccontò tutto di lui. Solo di una cosa non ci parlò mai: del suo periodo di detenzione.
«Ho imparato in carcere» diceva quando cucinava o vinceva a ramino, poi gli si spegneva il sorriso e parlava d’altro. 
Il giorno della seconda sommossa era più irrequieto che mai. Le poche notizie che filtravano raccontavano di altri morti. Morti senza nome, senza ragione. Dietro ognuno di quei numeri c’era un volto, una storia, degli affetti, dei desideri, c’era un futuro da riconquistare. Eppure, per i tetri dispacci dell’Impero erano solo “morti”. Come la volta precedente, avrebbero fornito dati asettici e approssimativi, indicando la Malattia come causa del decesso; li avrebbero 
sepolti nelle fosse comuni e sigillato ulteriormente le mura delle carceri. 
Rudy fischiava una melodia triste e ogni tanto mormorava delle parole tra sé e sé, tormentandosi le unghie. Prese la maschera e restò un’ora steso sul suo letto, non venne neanche a mangiare. Quando si alzò cercò a lungo un disco dalla sterminata collezione di Daria e alla fine mise il pezzo che gli ronzava per la testa a tutto volume.

“So pizz’ ‘e case o so pizz’ ‘e galera

Addò staje chiuse d’a matina a sera

Si’ o purgatorio ‘e tutt’ chesta ‘ggente

Ca vive dint’ e barrache e vive ‘e stient’”

Le misure restrittive dell’ #iostoacasa sono iniziate solo da pochi giorni e ciononostante avvertiamo l’insofferenza dell’esser barricati dentro casa, del non poter coltivare passioni e affetti fuori dalle mura domestiche, del non poter uscire se non per andare a lavoro o per fare la spesa.

Certo non ci si riferisce ai sostenitori dell’hashtag di governo, quelli dei videomessaggi rasserenanti con il giardino della villa sullo sfondo; ma piuttosto alle persone normali, quelle che affollano i territori metropolitani e che vivono in case normali, condividono stanze e spazi con altre persone, con la paura di un nemico invisibile fuori la porta.

Adesso immaginiamo di non avere altre stanze oltre alla piccola camera da letto e il bagno, e di condividere quello spazio con altre 5, 7, 9 persone, per lo più sconosciute; immaginiamo anche che tutte le mattine, molto presto, passi qualcuno – proveniente dall’esterno – per contarci, e poi ancora la sera lo stesso, ma a fare la conta è un’altra persona; poi ci portano il pranzo e la cena, di pessima qualità, dopo averli consegnati a tutte le altre camere prima della nostra.

E così sempre uguale, giorno dopo giorno, le ore vengono scandite da colazione, pranzo e cena, intervallate dal carrello che propone un’ora d’aria, aria chimica in gocce o in pillola formato psicofarmaco.

Nella stanza si sta così stretti che se volessimo scendere tutti/e contemporaneamente dai letti a castello a tre piani, dovremmo stare in piedi, fermi, senza muoverci per non toccarci.

Immaginiamo anche che ogni abitante della stanza abbia i propri acciacchi, e che in questa cittadella sia già difficile curarsi in condizioni di normalità. Capita spesso di sentire di qualcuno che ci lascia le penne per patologie facilmente curabili.

I nostri familiari sono fuori, altrove. In un posto forse più sicuro. Forse. Non lo sappiamo. Ci arriva solo quello che dice la TV, né possiamo sentirli spesso.
Immaginiamo di non avere telefoni, computer, di non poter mai avere un abbraccio, una carezza, di non poter vivere più in alcun modo nessun tipo di affettività.

Uno starnuto dell’ultimo arrivato, forse allergia. Difficile capirlo perché non parla bene la nostra lingua.

Un colpo di tosse dalla stanza accanto, quella dove il carrello del vitto è passato a consegnare il pranzo prima di arrivare da noi.

Le notizie della diffusione della malattia in TV non si arrestano. Sembra una cosa grave. Dicono che se la malattia si diffonde non ci saranno posti per curare tutti.

Una mattina arriva la notizia. La situazione è talmente grave che si sospende tutto. Niente attività. Niente socialità. Niente colloqui coi familiari.

Solo noi, 10 in una cella.

Dicono che nella stanza in fondo al corridoio, uno aveva la tosse. Lo hanno portato in infermeria e non è risalito. Forse è in isolamento. E i compagni di cella?

Che sta succedendo? La mia famiglia come sta? Ci lasciano qua a morire?

Mentre il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri annunciato il 7 marzo vietava gli assembramenti, “invitando” a restare a casa con minaccia di una sanzione penale e disponendo come distanza di sicurezza tra le persone quella di almeno un metro, si ometteva di intervenire sulla situazione di cronico affollamento delle carceri.

Secondo i dati del Ministero della Giustizia, al 29 febbraio 2020 in Italia i detenuti erano 61.230, a fronte di una capienza regolamentare delle carceri pari a 50.931 posti. In altre parole, dove dovrebbero stare 100 persone lo Stato italiano ne ha confinate 120.

Per fare qualche esempio, a Poggioreale erano 2.373, su 1.633 posti previsti e una capienza reale di 1.515, a Regina Coeli a Roma 1.061 persone su 616 posti, a Brescia nel carcere Fischione i detenuti sono 366 e i posti 189, a Bologna nel carcere D’Amato sono confinati in 500 posti 891 detenuti, a Busto Arsizio 434 detenuti per 240 posti.

Non che il governo non avesse già la consapevolezza delle conseguenze disastrose che avrebbe l’esplosione di un’epidemia nelle carceri sul fragile sistema sanitario.

Le condizioni di fortissima promiscuità interna, date dal sovraffollamento e dalle scarse condizioni igieniche e sanitarie, sfocerebbero repentinamente in un contagio incontrollato e di massa di centinaia, migliaia di persone contemporaneamente.

Data l’impossibilità di isolare più persone allo stesso tempo, la gestione dei contagi non potrebbe che avvenire mettendo in quarantena le intere sezioni detentive, col sacrificio “controllato” dei sani, costretti a restare in sezione coi malati e quindi ad ammalarsi.

D’altra parte, questo è quanto già è stato previsto dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, che ha disposto che ai casi sospetti venga effettuato il tampone direttamente in cella, isolando la stessa ed eventualmente l’intera sezione detentiva.

Mentre scriviamo, sarebbero una ventina i casi accertati di positività al Covid-19 tra i detenuti, ma risulta impossibile avere informazioni sulla relativa gestione. Le notizie che giungono dai sindacati di polizia penitenziaria, parlano di almeno cento positivi tra gli operatori civili e di polizia. Al contempo, tra i parenti dei detenuti si parla di numeri molto più elevati di contagi tra i detenuti, che non possono essere né accertati né smentiti, dato l’assordante silenzio di autorità e mass media.

Al 29 Febbraio erano 7419 i detenuti e le detenute nelle carceri campane. Prima dell’emergenza, l’Italia poteva contare su 5.324 posti in terapia intensiva e 2.974 nei reparti di malattie infettive, un numero inferiore a quello dei ristretti della sola regione Campania. Con tutti gli sforzi dell’emergenza in corso, i letti in terapia intensiva sono aumentati di 470 unità, e si spera di arrivare a 1.850 posti in più.

Nella regione Campania i posti letto pre-emergenza erano 499, e ne sarebbero stati attivati altri 320. Altri sarebbero in fase di allestimento, con l’obiettivo dichiarato dalla Regione di raggiungere quota 590 in più. Insomma mille in totale, anche nelle previsioni più rosee.

La bomba epidemiologica che deriverebbe dalla diffusione del contagio nelle carceri, insomma, mette in pericolo di vita anche i liberi e i giusti, con buona pace dei “se lo meritano”.

In paesi come l’Iran – normalmente descritti dalla nostra stampa come dittature o “Stati canaglia” – sono stati liberati 85.000 detenuti per far fronte all’emergenza; in questi giorni giungono notizie della scarcerazione di detenuti addirittura i Albania, negli Stati Uniti ed in Turchia. Tutti paesi che certo non hanno mai brillato nella tutela dei diritti umani.

Il governo italiano aveva ed ha chiaro il pericolo in atto.

Infatti, il 7 marzo venivano bloccate le attività trattamentali – possibile veicolo di propagazione interna del virus – ed i colloqui con i familiari – possibile veicolo di introduzione del virus nelle carceri.

Anche l’istituto della semilibertà veniva sospeso. I semiliberi sono coloro che escono dall’istituto durante il giorno – il più delle volte per lavorare o anche per altre attività – con l’obbligo di rientrare la sera. Quindi non fa una piega: potrebbero portare il virus in carcere e generare un’epidemia interna incontrollabile. Dunque o solo dentro, o solo fuori, magari agli arresti domiciliari.

Per il governo non c’è dubbio: meglio solo dentro.

“Sono più al sicuro loro dentro, che noi fuori”, è la trasposizione sulle carceri degli slogan governativi #iostoacasa e #andratuttobene.

Al contempo, si taceva e si tace consapevolmente sul fatto che il carcere è una struttura tutt’altro che impermeabile, nella quale le persone entrano ed escono continuamente: nuovi arresti, nuove esecuzioni di pena, migliaia di operatori civili e di polizia penitenziaria che staccano e riattaccano a lavoro.

Chiunque abbia avuto un minimo a che fare con le carceri, si sarebbe aspettato le rivolte che ci sono state. Questo la dice lunga sulla capacità del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e del Ministero della Giustizia – con a capo il cinquestelle Alfonso Bonafede – di comprensione e di governo delle dinamiche che investono gli istituti di pena.

Ma una cosa è altrettanto chiara. L’effetto provocato dalle scellerate scelte del governo non è esclusivamente frutto di una gestione maldestra e di personale scarsamente preparato.

Si tratta in fondo di una scelta politico-filosofica, che a fronte dell’emergenza sanitaria, se concepisce la possibilità di sacrificare il “normale” funzionamento della vita sociale, di giustificare la compressione delle libertà individuali e collettive, la sospensione di molti diritti – temi sui quali andrebbe aperto un capitolo a parte – e il blocco di molte attività, non può tollerare però il sacrificio di valori preminenti quali la produzione industriale – per cui, guai a chiudere le fabbriche! – e la punizione.

Attenzione: la punizione, non la giustizia.

Perché anche l’attività dei tribunali è sospesa, se non per quei procedimenti che sono volti alla convalida dei nuovi arresti, all’applicazione di misure cautelari, di sicurezza e di prevenzione (come ci ricorda l’applicazione, pochi giorni fa, della misura della sorveglianza speciale da parte del Tribunale di Torino ad una militante italiana, per aver combattuto nelle fila del YPJ contro l’ISIS).

E così dal 7 al 14 Marzo si sono susseguite in tutta Italia rivolte all’interno delle carceri. Le rivolte hanno interessato più di ventisette istituti, alcuni dei quali sono stati completamente distrutti.

Da Milano a Modena, Bari, Foggia, Roma, Palermo, Rieti, Verona, Napoli si sono alzati cori di libertà e in alcuni casi vi sono state evasioni di massa.

Le sommosse sono state represse con la violenza dei manganelli. Teste aperte, trasferimenti in massa e morti. Tredici.

Mentre tutti ci barricavamo e si verificavano i primi assalti ai supermercati, centinaia di parenti e solidali supportavano dall’esterno i detenuti e le detenute che si battevano all’interno.

Nel frattempo, sono stati numerosi anche gli scioperi nelle maggiori imprese italiane, dalla Piaggio alla Fiat passando dagli hub della logistica.

Anche nelle fabbriche, come in carcere, le norme dei decreti non erano e non sono applicate.

Anche fuori alle fabbriche, come in carcere, gli scioperi sono stati vietati e repressi anche con la violenza.

Il lavoro non è più un’eccezione al divieto di uscire, in deroga alle misure di sicurezza. Il lavoro è un obbligo, nel nome della produzione nazionale.

Le mura del carcere non lasciano permeare le informazioni all’esterno.

I racconti delle violenze avvenute durante e dopo le rivolte ad opera della polizia penitenziaria, riescono a filtrare solo attraverso le poche, mascherate, conversazioni telefoniche con i parenti.

L’emergenza sanitaria ingombra il campo dell’informazione al punto da rendere trascurabile la strage compiuta sui detenuti, come la portata storica delle sommosse. Al punto che, pur di gettare l’ombra del complotto ordito contro lo spirito di unità nazionale con cui siamo chiamati ad affrontare l’emergenza, si è proposta la narrazione delle regie occulte dietro le sommosse. Della mafia, o forse dei centri sociali: insomma, quanto di più potesse delegittimare e stigmatizzare la lotta per la sopravvivenza messa in atto da parenti e detenuti/e.

E ancora, al punto da far passare inosservato che il Ministro Bonafede abbia riferito in Parlamento che i morti sono “per lo più riconducibili ad overdose” da farmaci.

Overdose.

Se anche fosse verificata (e verificabile) la ricostruzione di tredici detenuti che assaltano le farmacie per imbottirsi di metadone e psicofarmaci, questo dovrebbe dirla lunga sul grado di marginalità e disperazione che riempie le patrie galere. Ma il dubbio è più che giustificato.

– Per lo più. Rinconducibili – .

Espressioni, quelle del Ministro, che dovrebbero far rabbrividire anche i più giustizialisti.

Nessun organo di informazione main stream che si sia posto il problema di ottenere delle risposte dai detenuti, o quantomeno dai loro parenti.

Nella migliore delle ipotesi, sono state interpellate le associazioni che si occupano della tutela dei detenuti, chiamate a partecipare al grottesco coro della condanna delle violenze.

#Responsabilità. Con un meccanismo da pubblica inquisizione che non è troppo diverso dalla caccia al corridore o al vecchietto che passeggia al sole, le rivolte sono state interpretate come un comportamento irresponsabile dei detenuti, incuranti dell’emergenza sanitaria che mette in pericolo i liberi.

Anche l’associazionismo istituzionale a tutela dei detenuti si è prestato a questo gioco, risultandogli forse indigesto che i detenuti possano rappresentare qualcosa di diverso dalle vittime infantili, bisognose di aiuto umanitario e di educazione elargita paternalisticamente dalla propria posizione privilegiata. Un soggetto – detenuti e detenute – che non ci si aspetta, e in fondo non ci si augura, che possa autodeterminarsi e agire per sé stesso.

Qualcosa che proprio non è consentito a chi, al massimo, può essere concesso di produrre le mascherine per la salute dei liberi, e di prostrarsi ai piedi della società dei giusti per ottenerne il perdono.

Sia chiaro: mentre ancora si discute se si muoia “per” il Covid-19 o “con” il Covid-19, è chiaro che le carceri si siano rivoltate “con” il Covid-19 e non “per” il Covid-19.

La paura della diffusione del virus nelle carceri è stata la miccia per le rivolte, dato il sovraffollamento e le precarie condizioni igienico-sanitarie. Basti pensare alla frequente assenza di docce nelle stanze e l’utilizzo di bagni comuni, la frequente carenza di riscaldamenti e acqua calda, letti e pareti piene di muffa e infinite attese per visite mediche specialistiche. Nelle carceri si muore spesso di patologie banali, facilmente curabili all’esterno.

Le morti negli istituti di pena, solo negli ultimi dieci anni, sono state 1503.

La sommossa, dunque, nasce certamente dalla paura del contagio, ma ha radici ben più profonde che risiedono nelle drammatiche e disumane privazioni e sofferenze di cui vivono detenuti e detenute, testimoniate dal numero dei suicidi che solo negli ultimi dieci anni è stato di 558 persone.

Le sommosse sono avvenute con il Covid-19 e non per il Covid-19, perché detenuti e detenute non chiedevano solo tamponi ma amnistia. Non solo amuchina ma indulto. Non solo mascherine ma libertà.

Nei confronti della sollevazione spontanea di così tanti detenuti e detenute – che non hanno altro strumento per essere ascoltati/e – il rimprovero per la violenza suona più o meno come il biasimo al vento che soffia o alla pioggia che cade.

Le rivolte che adesso stanno dilagando nelle prigioni ormai di tutto il mondo, pongono qualcos’altro all’ordine del giorno.

Forse, finalmente, l’urgenza di interrogarsi sulla necessità e sulla utilità della segregazione penale.

Ciò che è certo è che le rivolte dei giorni scorsi hanno finalmente aperto una profonda crepa in quell’ideologia giustizialista che da troppo tempo governa il paese e la sua cultura, e che intellettuali garantisti, associazionismo progressista e politici illuminati non sono mai riusciti a far arretrare di un millimetro negli ultimi decenni.

In questo senso deve essere letto il provvedimento adottato qualche giorno fa, pur trattandosi di un decreto adottato dal governo più giustizialista della storia della repubblica italiana.

Un provvedimento indubbiamente del tutto insufficiente, falso e quasi inutile, sia per far fronte all’emergenza sanitaria, sia per risolvere il problema di un sistema punitivo ormai indiscutibilmente incapace di dare delle risposte alle cause economico-sociali che originano i cosiddetti fenomeni criminali. Ma certamente un provvedimento che mostra il terrore che lo Stato nutre verso la forza inarrestabile che avrebbe una presa di coscienza della popolazione detenuta e che finalmente costringe a parlare di uscite dal carcere, piuttosto che di nuovi ingressi o inasprimenti di pene.

 

#èORAdaria_1 // Insert Coin 

Daria ha posato la maschera sul davanzale, si è legata i capelli viola con un elastico ed ha chiuso la finestra proprio mentre Rudy varcava la soglia di casa, più trafelato che mai. Aveva il fiatone per aver fatto le scale correndo. Era uscito per comprare qualcosa al supermarket degli srilankesi dopo la piazza e ne ha approfittato per sondare i tetti dei palazzi vicini, sempre per quella sua idea di piazzarci un’antenna e farci una radio. Una pattuglia dell’esercito dell’Impero ha preso ad inseguirlo ma per fortuna era a piedi; si è rifugiato in un portone per più di un’ora con la paura che qualche condomino-spia lo denunciasse o lo filmasse con uno smartphone.
«Cazzo ormai sembra un videogioco», dico quasi tra me e me.
«Ci hai fatto preoccupare Rudy» butta lì Maz, grattandosi il braccio squamoso con le unghie. È la prima volta da oggi che alza la testa dal computer.
 Va bene che siamo una gang ma ognuno è libero di fare quello che vuole e lui ci tiene a questa storia dell’antenna, lo difendo. Abbiamo raccolto un po’ di materiale ma non siamo ancora certi di quale sia il modo migliore per farlo circolare e lui sta provando a farci uscire da questa situazione.
Daria ha letto le cose che ho scritto stamattina, ma non mi sembra convinta; si è alzata senza una parola, ha preso la maschera ed è andata al davanzale per guardare fuori. Forse vede cose che noi non riusciamo a vedere, oppure era solo in ansia per Rudy che non tornava.
Intanto, nella stanza il silenzio è rotto solo dal respiro irregolare di Rudy che cerca di riprendersi e dal picchiettare di Maz sui tasti della tastiera.
«Leggimi quello che hai scritto» – mi fa alzandosi dalla scrivania e indossando la maschera – «ma leggi piano che già quando parli non si capisce un cazzo»
Gli mostro il terzo dito e mi accendo una sigaretta.

 

Un tempo, per indicare un avvenimento su cui l’uomo non aveva nessun controllo o responsabilità, avremmo utilizzato il concetto di “fenomeno atmosferico”. L’accelerazione degli ultimi anni dei cambiamenti climatici e di tutte le conseguenze connesse all’azione umana ci impongono di rivedere questa espressione.
Allo stesso modo, crediamo sia assai difficile poter attribuire il propagandarsi dell’epidemia di CoVID-19 a elementi di carattere strettamente “naturale”.
Alla luce di quanto al momento conosciamo, questa autoassoluzione umana è del tutto immotivata e fuori luogo poiché la pandemia di queste ore non è che il risultato del succitato sfruttamento del pianeta.
La riflessione collettiva su quanto gravita attorno a noi non è stata semplice. La nostra gang ha dovuto indossare le maschere e aggirarsi tra complottismi di varia natura sulla nascita e la diffusione del virus (di cui avremo potuto riportare una spassosissima antologia, se non ci fossero in ballo migliaia di morti), paranoie collettive e articoli per i quali la sola consolazione era la loro natura digitale che evita ulteriore spargimento inutile di carta e inchiostro.
L’OMS ha identificato il nome definitivo della malattia in CoVID-19, mentre la Commissione Internazionale per la Tassonomia dei Virus ha assegnato al virus il nome di SARS-CoV-2. Si tratta, infatti, di un virus molto simile a quello della SARS se non per due caratteristiche: una maggiore contagiosità e, per fortuna, un minore tasso di mortalità.
È opportuna questa distinzione perché fino ad ora si è parlato solo della malattia, per altro confondendola spesso con il virus. Questa premessa spiega anche perché adesso ci inseriamo nel dibattito sul SARS-CoV-2 dal quale ci eravamo tenuti un po’ alla larga. La discussione sul virus-malattia sembrava implicare l’impossibilità di ragionare su tutto ciò che faceva da contorno all’epidemia, come le rivolte nelle carceri o gli scioperi selvaggi nelle fabbriche e nei capannoni, restando vincolati unicamente alla parola d’ordine “io sto a casa”.

Come molte altre malattie che l’hanno preceduta anche ila CoVID-19 è arrivata all’essere umano tramite gli animali. Negli ultimi decenni sono moltissime le malattie che hanno questa origine e che per questo vengono chiamate zoonosi.
La storia della zoonosi comincia quando il virus coglie un’occasione per propagandarsi da una specie all’altra. Capita, infatti che un virus possa vivere per decenni all’interno di un animale senza causarne il decesso. Tuttavia quando il virus ha l’opportunità “trabocca” da un organismo all’altro, infettando una nuova specie. Il momento in cui un virus passa da una specie ospite ad un’altra si chiama spillover.
Sono zoonosi la rabbia, la leptospirosi, l’antrace, la SARS, la MERS, la febbre gialla, la dengue, l’HIV, Ebola, Chikungunya e i Coronavirus, ma anche la più diffusa influenza, solo per citarne alcune. Semplicemente leggendo i nomi delle malattie ci rendiamo conto della familiarità che abbiamo con questi nomi. La ragione è semplice: praticamente più del 70% di quelle che hanno colpito l’uomo negli ultimi 30 anni sono di origine zoonotica e si immagina che nel corso dei prossimi anni la situazione non potrà che aggravarsi. Per queste ragioni l’OMS aveva anche avvertito nel 2018 i vari paesi a prepararsi ad affrontare una probabile pandemia di origine zoonotica. È evidente che i governi italiani (di tutti gli schieramenti) abbiano preferito continuare a smantellare e smembrare in maniera sistematica la sanità pubblica piuttosto che irrobustirla per fronteggiare la possibile “emergenza”.

Detto questo, ci si domanderà: ma se allora tutte queste malattie vengono dagli animali l’essere umano che colpa ha? Per rispondere a questa domanda è necessario un ulteriore chiarimento. Non è possibile attribuire la responsabilità all’essere umano in toto, è necessario attribuire questa responsabilità all’attuale sistema di produzione, colpevole di favorire in maniera determinante le condizioni che pongono in essere il passaggio del virus da una specie all’altra.
Ecco quali sono le condizioni.
La principale ragione del progressivo diffondersi dello sviluppo di malattie zoonotiche è, infatti, la sistematica distruzione del pianeta.
Deforestazione e urbanizzazioni riducono gli habitat a specie animali portatrici del virus e le obbliga ad entrare in contatto con l’uomo. Allo stesso modo il turbamento dell’ecosistema che favorisce la scomparsa di intere specie “costringe” il virus a trovarsi un nuovo organismo in cui sopravvivere e l’essere umano, con i suoi 7,7 miliardi di esemplari sul pianeta, è di certo un bersaglio facile.
I cambiamenti di uso del suolo e la distruzione di habitat naturali sono considerati responsabili di almeno la metà delle zoonosi emergenti. L’urbanizzazione incontrollata delle aree forestali è stata associata a virus trasmessi dalle zanzare, ma non solo. Nelle foreste tropicali si ritiene vivano milioni di specie in gran parte sconosciute alla scienza. Tra questi milioni di specie ignote ci sono virus, batteri, funghi e molti altri organismi, molti dei quali parassiti. Ebola, Marburg, Lassa, il vaiolo delle scimmie, e il precursore dell’HIV sono un campione minuscolo della miriade di altri virus non ancora scoperti. Anche lo scioglimento dei ghiacciai rischia di liberare batteri e virus ormai appartenenti al passato e di cui al momento non si hanno anticorpi o vaccini.

Le ultime analisi dimostrano che esistono due ceppi fratelli del virus che stiamo affrontando, chiamati Tipo I e Tipo II. Del primo ancora non sappiamo quale possa essere l’origine, mentre del secondo sappiamo che si è propagato dal famigerato mercato di Wuhan. I mercati di animali sono sempre più spesso origine di diffusione dei contagi e di spillover, soprattutto quelli in cui si vende la carne di animali esotici, considerata un bene di lusso e di stato sociale. Sebbene tutto questo sia assolutamente vero, non dimentichiamo, però, che alcune delle malattie che hanno infettato l’uomo nel recente passato, come la suina e la aviaria, nascono da allevamenti intensivi.
Allo stesso modo l’utilizzo intensivo di farmaci nell’allevamento intensivo di bestiame ha portato alla comparsa di ceppi di Salmonella. In generale le pratiche zootecniche intensive possono facilitare lo spillover di agenti patogeni, portando a nuovi e pericolose zoonosi, come la SARS e nuovi ceppi di influenza.
Pertanto, quando, l’emergenza sarà ridimensionata e si stringerà sempre più il cerchio attorno agli ambulanti o ai mercati, affiancando al “decoro” anche il concetto di “sanità”, utilizzato però in termini terroristici, ricordiamoci che la maggior parte della carne che mangiamo viene proprio dagli allevamenti intesivi.
In sintesi: La deforestazione, l’alzamento della temperatura della terra e dei mari, l’estinzione di decine di migliaia di specie, lo scioglimento dei ghiacciai, l’inquinamento degli oceani, lo sfruttamento intensivo della terra e degli animali sono tutte cause del diffondersi di virus dagli animali all’uomo.
Da questi brevi quanto semplici esempi appare chiara l’impellenza di un cambio di rotta per evitare il presentarsi di quello che gli scienziati chiamano il Big One, ovvero un’epidemia di proporzioni inimmaginabili e paragonabili solo alla peste bubbonica che nel medioevo ridusse di un terzo la popolazione europea.

L’urgenza di questo cambio di rotta è ancora più evidente se si tiene conto di quanto si sostiene nell’IPBES (Intergovernamental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services dell’ONU). Nel rapporto IPBES il termine per definire l’azione distruttiva dell’uomo sulla natura è “Unprecedented”, senza precedenti. Secondo il report il75% dell’ambiente terrestre e circa il 66% dell’ambiente marino sono stati modificati in modo significativo e circa 1 milione di specie animali e vegetali, come mai si era verificato nella storia dell’umanità, rischiano l’estinzione.
Come dicevamo nelle premesse – questa parte me l’ha fatta aggiungere Maz –  tutto questo sta avvenendo per la brutalità con cui, in nome del profitto di qualcuno, si sfrutta il pianeta e tutti i suoi abitanti. È piuttosto evidente, infatti, che il sistema di produzione in cui viviamo si appropria e sfrutta con la stessa brutale arbitrarietà esseri umani e terra senza preoccuparsi della sopravvivenza né degli uni che dell’altra.
Dobbiamo smettere di pensare che la catastrofe, la distruzione del pianeta avverrà all’improvviso in fatidico un giorno X. La catastrofe è già sotto i nostri occhi. Cambiamenti climatici, estinzioni e pandemie sono ormai la nostra realtà. La catastrofe è già in corso.
Ormai non ci resta altra scelta: farla finita con il capitalismo o farla finita con l’umanità.

 

 

Restano tutti in silenzio, nessun commento. Daria sembra assorta in altri pensieri.
«Allora?» chiedo dopo un po’.
Rudy risponde per primo:
«Per me va bene, ma forse alla radio sarebbe un po’ troppo lungo». Il suo braccio squamoso riflette le tonalità iridescenti del tramonto che si infiltrava dalla finestra. 
«Ma chi ha detto che dobbiamo leggerlo alla radio, cioè quando è stato deciso?»
«Lascia perdere, ci pensiamo domani tanto ci vuole ancora un po’ per il Game over».
Si butta sul divano, prende il telecomando e accende la tv. Su tutti i canali passano lo stesso programma. 

#èORAdaria_0

Il tempo dei Decreti era senz’altro l’epoca dei sacerdoti degli hashtag e dei propri adepti.
Era il tempo in cui ogni riflessione collettiva su quanto stesse avvenendo era osteggiata, mal vista, bandita. Si pregava e ci si prostrava innanzi ad un simbolo venerandolo come un totem: #

I profili social si trasformavano in macellerie sociali e le persone erano compiaciute di poter contribuire alla caccia all’untore; erano proprio desiderose di bruciare le streghe sul rogo e riprendersi tutti quei piccoli piaceri dell’esecuzione pubblica a cui solo uno scherzo dell’anagrafe aveva impedito loro di prendere parte. Erano assetati di colpevoli e spintonavano nelle file virtuali per arruolarsi nell’Esercito Reale dei Decreti. Gareggiavano a dimostrarsi più realista del Re. Un continuo reclutamento di battaglioni di persuasori e di spie.
I blindati dell’Impero battevano le strade diffondendo la parola del Decreto. Il Ministero della Propaganda dell’Impero si interrogò su come proporre il nuovo nemico. Non era una cosa semplice; il nemico questa volta risultava invisibile ed evanescente, non poteva essere sbattuto in Tv o sul web. Occorreva, tuttavia, individuare una soluzione e farlo alla svelta poiché si correva il serio rischio che qualcuno potesse additare l’Impero stesso come prossimo nemico. Fino ad allora il pericolo contro cui schierarsi era fatto di carne, di ossa, di sangue ma con la carta di identità di un’altra parte del mondo.

A quel punto l’idea venne da sé: il vostro nuovo nemico sarete voi stessi! La folla dei social acclamò entusiasta. Uno dopo l’altro i nemici pubblici furono indentificati, sommariamente processati, infine giustiziati e gettati nelle fosse comuni. Era la sorte che spettava a chi ancora non aveva capito che con i Decreti era cambiato il modo di guardare al mondo e con esso era cambiata anche la grammatica. Non era più lecito coniugare i verbi in sei persone; era un uso desueto e irresponsabile dell’evolversi sociale della lingua. Restarono in vigore solo due persone: la prima e l’ultima. Io e loro.

Loro prendono il treno per tornare a casa.
Io resto a casa e li insulto.
Loro escono.
Io li riprendo con lo smartphone.
Loro diffondono la malattia respirando la mia stessa aria.
Io avverto la polizia.
Loro lavorano nei capannoni.
Io compro su Amazon.
Loro muoiono nelle carceri.
Io dico che se lo meritano.
Loro mi portano la merce a casa che mi aiuta a passare il tempo.
Io gli apro ma devono starmi lontano che stanno tutti assiepati nei magazzini.
Loro lavorano quattordici ore negli ospedali.
Io applaudo dai balconi.
Loro muoiono.
Io no.
Io muoio.
Per colpa loro.

Grazie a questa solerte partecipazione e a queste adunate social l’Impero del Decreto non ritenne di dover prendere misure ulteriori. Il sistema avrebbe tenuto. Non c’era alcun motivo di anteporre la sicurezza sanitaria collettiva a quella securitaria individuale. Piccole voci in lontananza incoraggiavano il diffondersi del malcontento circa le condizioni in cui versavano le strutture pubbliche; si chiedevano come mai non fosse stato disposto un piano di cura e prevenzione collettivo; serpeggiava la necessità di verità sull’origine dell’epidemia; si interrogavano su come si potesse vivere in dodici in una stanza. Tutte queste voci strisciavano nel sottosuolo. Si sentiva tremare leggermente la terra, come al passaggio di un treno della metropolitana sotto i posti di blocco.
Eppure, il furore non cambiava: la colpa è loro che non restano a casa, incoraggiava la televisione.
Sebbene avesse avuto mesi interi per prevenire e programmare la catastrofe, l’Impero del Decreto scelse deliberatamente di far trovare la popolazione impreparata. I deboli caddero come mosche. La colpa era interamente e unicamente di chi non restava a casa. Io devo salvarmi, devo salvare la mia famiglia e poco importa se la gente deve continuare a lavorare, se sta in galera o se è sola e non ha nessuno che può aiutarla.

Le risorse scarseggiavano. Le mascherine erano introvabili.
Un pugno di organismi ormai modificati da piogge acide e cambiamenti climatici rispolverò delle vecchie maschere antigas da una cantina. Erano poche e impolverate ma funzionavano ancora.
Le infilarono a turno per sottrarsi alla dittatura dei social, ai sacerdoti degli hashtag, alla prima persona singolare.
Le indossarono a turno, un’ora al giorno, per provare a respirare.
Cospirare vuol dire respirare. Insieme.